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Martedì, 23 Gennaio 2024 16:51

Riconoscere e ri-progettare la città contemporanea

UNIVERSITA’DI CAMERINO

SEMINARIO

Riconoscere e ri-progettare la città contemporanea

Ascoli Piceno, 20-5-2011

 

I TEMI DELLA TRANSIZIONE

Roberto Gambino *

 

 

 

1.Una fase di transizione?

 

Le notizie e le immagini della immane tragedia del Giappone sembrano travolgere ogni possibilità di approccio razionale, scientificamente orientato, alle grandi questioni dell’insediamento umano contemporaneo. Nonostante il clamore mediatico e la “domanda di verità” che accompagnano di regola le emergenze ambientali, è spesso troppo arduo o forse impossibile distinguere le questioni d’emergenza da quelle che si manifestano nel segno della quotidianità e dell’ordinarietà. Difficili, largamente inadeguati, i tentativi di cogliere i nessi che legano le catastrofi “naturali” all’opera più o meno consapevole e intenzionale dell’uomo. Non meno difficili i tentativi di riportare ad un’interpretazione unitaria, anche alla luce della teoria Thomiana delle catastrofi, gli esiti che si manifestano nei diversi settori dell’attività antropica, da quelli che riguardano le trasformazioni fisiche del territorio a quelli che riguardano l’uso ed i consumi delle risorse naturali, o le dinamiche sociali e culturali, o i processi economici e finanziari. E le difficoltà sono tanto maggiori quanto più all’interpretazione si tenta di associare la previsione: ”nel buio discernere il futuro”.

 

Ma davvero stiamo attraversando “la fase dei grandi rischi” (Scalfari 2011)? Davvero non è casuale la concomitanza tra sommovimenti tellurici di inedita violenza, effetti disastrosi del cambio climatico globale (Kushner, 2011), drammatiche scosse d’assestamento geopolitico su scala internazionale, crisi economica globale ed esplosione della “bolla speculativa”? Non è certo questa la sede per rispondere a domande come queste. Ma, anche se si concentra l’attenzione sull’urbanistica e la pianificazione, non si può fare a meno di interrogarsi sui grandi cambiamenti che attraversano i territori della contemporaneità e sulle risposte che la cultura tecnica e scientifica ha elaborato o sta elaborando agli albori del terzo millennio. La “crisi della modernità” (Harvey 1990) consumata nel corso degli ultimi decenni aveva segnato la decadenza delle grandi narrazioni, delle idee di progresso e di giustizia sociale, delle questioni generali come quelle legate al controllo agli usi del suolo e delle risorse primarie. La frammentazione ecosistemica, prodotto perverso dell’urbanizzazione totale del territorio, sembrava trovare riscontro nella frantumazione del tessuto sociale e dei sistemi di relazione, nella estrema diversificazione degli interessi e delle domande sociali. E. di conseguenza, negare spazio alle interpretazioni unificanti, all’idea stessa di interesse pubblico.

 

Nel corso degli anni ’80, i dibattiti sulla crisi dell’urbanistica, caratterizzati dalla contrapposizione quasi caricaturale tra la cultura del piano e la cultura del progetto, sembravano destinati a smentire definitivamente l’efficacia sociale della pianificazione. Luigi Mazza, in una lucida analisi su Urbanistica (n.98, 1990) riprendendo una nota di Bernardo Secchi (Casabella n.530, 1986), osservava come “la domanda sociale a cui tradizionalmente gli urbanisti davano risposta sarebbe mutata, non più ‘questione generale’, ma problema di minoranze; di questo gli urbanisti non si sarebbero accorti e perseguendo una ‘questione generale’ ormai inesistente avrebbero aggravato il sistema di disuguaglianze anziché attenuarlo”. Problemi d’ordine generale come quelli legati ai rapporti tra stato e mercato nella costruzione del territorio, e quindi al controllo dei valori del suolo, sembravano “rimossi dalle passioni e dagli interessi di buona parte degli urbanisti. L’attenzione di molti è piuttosto concentrata sulla questione della forma e del disegno della città”. Affascinata dai problemi dell’identità complessiva dell’urbs, la pianificazione sarebbe incapace di affrontare quelli della “frammentazione e l’articolazione della civitas e quindi la molteplicità delle forme secondo cui la nostra società tende ad autorappresentarsi”. Il contributo della pianificazione urbana e territoriale alla risoluzione della “questione urbana” su cui si era concentrata nei decenni precedenti la riflessione di studiosi come Castells, non senza potenti riscontri nei movimenti di base della società, sembrava indebolirsi; ed anzi la stessa questione - come questione, appunto, generale - sembrava perdere d’attualità e rilevanza nelle domande e nelle percezioni della società contemporanea.

 

A più di vent’anni di distanza, ci si può chiedere se queste osservazioni siano ancora valide, se la questione urbana costituisca ancora o nuovamente il quadro problematico con cui la pianificazione deve confrontarsi. E se l’uscita dalla crisi che sembra pervadere le nostre città e i nostri territori richieda la costruzione di un quadro interpretativo ampio e comprensivo: un quadro nel quale si possa tentare di situare coerentemente i grandi problemi della società contemporanea, da quelli che concernono le trasformazioni fisiche del pianeta a quelli che riflettono la radicalizzazione delle diseguaglianze economiche e sociali, le carenze ed il degrado delle condizioni abitative, la crescente mobilità delle popolazioni, delle attività e delle idee. In altre parole, dobbiamo chiederci se e come la cultura della pianificazione (in termini di statuti scientifici e competenze disciplinari, di capacità tecniche professionali, di apparati amministrativi, di strumenti giuridici e di quadri istituzionali, ma anche di attitudini e sensibilità culturali) possa oggi tradurre “le preoccupazioni individuali in questioni pubbliche” (Bauman, 2008). . Si impone un cambio di prospettiva, per passare da una visione patrimoniale statica e inventariale – quale quella che ha orientato e tuttora in larga misura orienta l’azione di tutela del patrimonio culturale e naturale (Choay 1993) - a una visione dinamica e strutturale, in grado di cogliere le drammatiche criticità e l’attualità del territori. E’ una visione che sconta l’impossibilità di archiviare l’eredità storica nelle memorie e nei reperti del passato e spinge invece a riconoscere l’attualità del territorio storico nella sua incessante contemporaneità con la cultura della società che lo abita e lo produce. Una visione che, incrociando più vaste riflessioni sulle dinamiche della società contemporanea, ha aiutato a comprendere la (ri)scoperta del territorio come risorsa a rischio di perdita e di degrado, ma anche come insostituibile fondamento dell’azione politica e culturale.

 

Nel tentativo di offrire qualche risposta a tali interrogativi, non si può prescindere da una constatazione quasi banale, che riguarda l’incrocio della questione urbana con la “questione ambientale” latamente intesa. Espressione, quest’ultima, che evoca un groviglio inestricabile di problemi, di rischi e di paure, ma anche di speranze, di domande e di attese che hanno assunto nella seconda metà del secolo scorso crescente importanza per la società contemporanea. Da un lato infatti i processi di urbanizzazione e di trasformazione territoriale hanno accelerato e amplificato la frantumazione dell’ecosfera, moltiplicando le diseguaglianze e gli squilibri che richiedono specifica attenzione e quindi specifici “progetti”. L’enfasi sulla diversità (che, a livello internazionale, si è progressivamente spostata dalla sfera biologica –oggetto degli accordi di Rio nel 1992- alla sfera bio-culturale su cui l’Unesco e l’Unione mondiale della natura hanno ancora recentemente portato l’attenzione), la ricerca dei valori di identità (su cui la stessa Convenzione Europea del Paesaggio concentra le sue raccomandazioni: CoE, 2000), la rivendicazione dei nuovi diritti di cittadinanza (che includono la difesa delle proprie peculiarità), il rilievo politico e socioculturale attribuito allo sviluppo locale (che pervade le dichiarazioni e gli atti di indirizzo delle amministrazioni pubbliche a tutti i livelli), sono alcuni tratti fondamentali dei cambiamenti verificatisi in quei decenni, che spingono assai più di prima, a “rendere disomogeneo lo spazio e a definire al suo interno differenze” (Secchi, ibidem). Ma dall’altro lato, l’esplosione dei rischi ambientali e il “salto di scala” di gran parte dei problemi ambientali, economici e sociali (sempre meno trattabili a scala locale, sempre più richiedenti azioni e apparati di controllo a livello regionale, nazionale e soprattutto internazionale), ripropongono i grandi temi dell’integrazione trans-scalare delle azioni pubbliche di regolazione, dei grandi racconti e delle “big pictures” su cui si fondano le strategie d’insieme (basti pensare ai sistemi infrastrutturali). Emblematico, in questo senso, il tema del “global change” e dello sconfinato insieme di attività e di politiche che dovrebbero contrastarne o mitigarne gli effetti indesiderabili.

 

2. Luoghi, reti e paesaggi nella transizione in corso

 

La grande transizione in cui siamo impegnati non riguarda soltanto i cambiamenti reali del mondo contemporaneo, ma anche i modi con cui li osserviamo, le concezioni, i miti e le utopie che guidano le nostre analisi e le nostre scelte. Non possiamo evitare di misurarci coi processi emergenti, ma “per farlo dobbiamo poterli riconoscere. E per riconoscerli capire quanto sta accadendo” (Hillman, 2011). A questo fine l’approccio “territorialista” – quale quello recentemente proposto dalla neonata “Società dei territorialisti”: Magnaghi 2010 - ha svolto e può svolgere un ruolo significativo. “Questo approccio ha posto al centro dell’attenzione disciplinare il territorio come bene comune, nella sua identità storica, culturale, sociale, ambientale, produttiva, e il paesaggio in quanto sua manifestazione sensibile […]. Il ritorno al territorio come culla e risultato dell’agire umano esprime e simboleggia la necessità di reintegrare nell’analisi sociale e quindi anche economica, gli effetti delle azioni umane sulla mente umana e sull’ambiente naturale, sempre storicamente e geograficamente determinati”. Il territorio, dunque, non come inerte supporto delle attività antropiche, ma come sistema costitutivo delle relazioni che esse intrattengono con le dinamiche naturali.

 

In questa prospettiva, il rapporto tra natura e cultura svolge un ruolo cruciale, tutt’altro che scontato. Respinte le schematizzazioni meno sostenibili (come la divisione dicotomica del territorio in spazi naturali  e spazi antropizzati: divisione che tuttavia ricorre ancora non solo nelle politiche dei parchi e delle aree protette "insularizzate", ma anche in molte politiche territoriali volte a contrastare con misure di esclusione i consumi dissennati di territorio)  occorre riconoscere che la discussione è aperta, sul piano teorico non meno che  politico ed operativo. Occorre da un lato de-naturalizzare le scelte di trasformazione antropica, troppo spesso occultate da generici richiami  agli eventi naturali (le false emergenze naturali  che coprono autentiche  "calamità pianificate"  e  logiche devastanti di gestione "emergenziale" del territorio, ma anche quelle interpretazioni strutturali di piani urbanistici e territoriali che confondono il "dato" col progetto). Dall'altro occorre, dopo la svolta ecologista della metà del secolo scorso e le sue ricadute deterministiche (McHarg 1966), ricostruire i rapporti tra naturalità, ruralità e urbanità, riconoscendone la compresenza pervasiva in ogni angolo del pianeta. Si configura un radicale superamento di quella contrapposizione tra natura e cultura che ha svolto un ruolo centrale nella civiltà occidentale in età moderna, a partire dalle grandi utopie rinascimentali. Se ancora alla fine dell’800 Ebenezer Howard (1898) poteva proporre con la teoria dei tre magneti e l’idea della “Città giardino” una sintesi creativa, i grandi cambiamenti del secolo scorso (come l’industrializzazione dell’agricoltura o l’urbanizzazione “totale” dello spazio abitabile e la reciproca contaminazione dei rispettivi spazi dedicati) hanno messo fuori gioco i tradizionali modelli interpretativi e sollecitato l’elaborazione di nuovi rapporti.

 

Si afferma faticosamente una crescente consapevolezza delle responsabilità antropiche nella determinazione o nell’aggravamento dei rischi, delle calamità e del degrado ambientale, mentre i “nuovi paradigmi” che si profilano a livello internazionale (IUCN 2003) legano ormai ogni prospettiva di conservazione della natura alla promozione e regolazione dello sviluppo culturale, economico e sociale sostenibile. Da un lato l’enfasi sull’impegno internazionale per la difesa della bio-diversità concede uno spazio crescente all’importanza della diversità bio-culturale, ostaggio dei processi di urbanizzazione totale ma mai indipendente dalle dinamiche naturali (Unesco 2009). E’ questa la diversità che costituisce la ricchezza (il “capitale”) su cui basare lo sviluppo sostenibile del territorio. E d’altro canto non si può certo ignorare il significato culturale connesso all’utilizzazione antropica delle risorse naturali, alla fruizione, alla percezione e all’apprezzamento individuale e collettivo dei paesaggi e delle “bellezze naturali”. Già la scoperta humboldtiana del “nuovo mondo” (von Humboldt, 1860), come l’”invenzione” sette-ottocentesca delle Alpi, orientano gli sguardi e umanizzano irreversibilmente il mondo naturale, anche in assenza di rilevanti trasformazioni fisiche. Soprattutto nei territori europei in cui più densa e pervasiva è stata la sedimentazione culturale, la naturalità con cui abbiamo a che fare è quella storicamente determinata dalle vicende pregresse dell’appropriazione antropica dello spazio: non solo da quella che ci ha lasciato un patrimonio ammirevole di paesaggi culturali, ma anche dalle spinte omologatrici che hanno investito la campagna, ipersemplificato e banalizzato i paesaggi agrari ereditati da secoli di storia, piegato le dinamiche naturali alle logiche, spesso indecifrabili, dell’espansione urbana e della dispersione insediativa, ”, smantellato i reticoli ecologici (fossi, canali, siepi ed alberate, ecc.), presidio prezioso della diversità paesistica e della stabilità ecosistemica. (Gambino 2000). Negli scenari che si vengono delineando a livello globale, la naturalità così “storicizzata” non è in alcun modo confinabile in “aree naturali” sottratte (illusoriamente) all’influenza antropica, ma incrocia ovunque l’opera dell’uomo, sia che essa si allei assecondandole con le dinamiche naturali, sia che le contrasti in forme più o meno calamitose.

 

E' in questo contesto complesso e problematico che va concentrata la ricerca di  una nuova territorialità, gravida di memorie e di consapevolezza ambientale, sullo sfondo di un'evoluzione del pensiero scientifico contemporaneo che sembra mutare il senso della presenza umana nel mondo. In questa ricerca il riferimento alla dimensione locale è fondamentale. Una dimensione che evidenzia le identità e i caratteri su cui riposa la diversificazione del territorio, senza vincoli di scala. Che crea i paesaggi, con visione dinamica e trans-scalare, con collegamento incessante alle percezioni, alle attese ed ai progetti degli abitanti. ma i luoghi non sono frammenti autonomi e indipendenti, non sono mondi separati, sono “schegge del mondo” (Magris…). La loro capacità di conservare i propri caratteri identitari dipende, non meno che dalle “chiusure operative” dei sistemi locali, dall’apertura verso il cambiamento e quindi dalla loro capacità di affacciarsi efficacemente sulle reti di relazioni che agiscono nel contesto territoriale, alle diverse scale.

 

E’ qui che si concreta il rapporto tra valori locali e valori universali. Negli scenari internazionali anche il riferimento prioritario ai sistemi di valori sovra-locali è oggi in discussione. Da un lato infatti l’indietreggiamento dei valori universali, minacciati od aggrediti dagli attuali modelli di sviluppo, spinge a misure esemplari di tutela, quali quelle accordate ai siti inseriti nel World Heritage. Ma dall’altro lato, la rivalutazione dei sistemi locali e delle ragioni dello sviluppo locale, soprattutto in situazioni di marginalizzazione o di declino, trova riscontro nella riaffermazione dei valori identitari locali, visti spesso dalle comunità perdenti come le “radici del proprio futuro”. Sebbene le rivendicazioni identitarie non siano certo esenti da chiusure autistiche e aspre conflittualità (le ”identità armate”), è nei sistemi culturali locali che si radicano i valori universali, come dimostrano le ricerche e i dibattiti che hanno accompagnato varie esperienze di riconoscimento di Siti Unesco, compresa quella recente, relativa alle Dolomiti: inserite come “sito naturale” ma per ragioni che richiamano esplicitamente la rilevanza dei patrimoni culturali locali. Tra i valori locali e i valori universali sembra così delinearsi un rapporto di complementarietà, o più precisamente di forte interazione, che non cancella la possibilità di conflitti e di contraddizioni. (Gambino 2010). Pensata come un argine contro la perdita o la regressione dei valori universali, la difesa del migliaio di siti del World Heritage sparsi in tutti i continenti sembra spesso portare piuttosto il vessillo di “peculiari” valori locali, capaci di competere vantaggiosamente sull’arena globale. Non a caso le battaglie politico-culturali per le “nominations” dei Siti da inserire nelle liste Unesco sono sempre più spesso ingaggiate in nome del rilancio e del consolidamento di culture e di paesaggi locali (come tipicamente nel caso dei paesaggi viticoli francesi od italiani).

 

La tensione tra valori naturali e culturali, tra valori locali e universali, evoca inevitabilmente il rapporto tra i luoghi e le reti. Luoghi e reti sono da tempo pensati come metafore complementari, per l’interpretazione e il progetto dei territori della contemporaneità (Gambino1994?). Esse possono aiutare a riconoscere la “territorialità del paesaggio” nell’ampio significato attribuitogli dalla Convenzione Europea promossa dal Consiglio d’Europa nel 2000. E’ nel paesaggio, quale risulta dall’incessante interazione delle dinamiche antropiche e naturali, che l’insediamento storico prende il suo pieno significato, di storicità ed attualità. E’ nel paesaggio che i centri storici dialogano non solo con la campagna “edificata” (Cattaneo 1845), nel corso dei secoli e dei millenni dalle reti agrarie, dai sistemi delle acque e dai sistemi della viabilità e delle infrastrutture, ma anche con la presenza mobile della natura, che, riluttante ad ogni confinazione, pervade e diversifica gli spazi che circondano le aree in vario modo costruite. Nonostante i processi di urbanizzazione diffusa, la proliferazione delle maglie infrastrutturali e la stessa “modernizzazione” della pratiche colturali – soprattutto nell’ultimo mezzo secolo - abbiano profondamente ed estesamente intaccato i paesaggi ereditati dal passato, frantumandone i reticoli connettivi e i caratteri identitari, è ancora in quei paesaggi e nella loro coerente evoluzione che si può tentare di recuperare la qualità, la bellezza e la riconoscibilità dei territori contemporanei. La ricostruzione di migliori equilibri ecologici e di più accettabili condizioni di sicurezza nel quadro di vita delle popolazioni, non meno che la ricerca di nuovi fondativi rapporti coi luoghi, trova nella diversità dei paesaggi un’espressione fondamentale. Ma anche, inversamente, la piena considerazione dei nuovi significati di centralità sociale spinge ad interpretarli nel quadro della reinvenzione dei paesaggi della modernità. La chiave paesistica offre un ausilio potente per orientare il progetto di territorio al riconoscimento delle nuove forme del rapporto tra cultura e natura: passo obbligato per migliorare la qualità complessiva offerta agli abitanti non meno che ai turisti e ai visitatori.

 

3. La riarticolazione della centralità urbana.

 

In particolare, è il paesaggio urbano storico, che compone forme propriamente urbane con frange peri-urbane di “campagna urbana” (Donadieu 2006), ad attrarre sempre più (come già rilevava il Memorandum di Vienna nel 2005) visitatori, residenti e capitali. Nella transizione verso la società della cultura e della conoscenza, e a fronte delle spinte omologanti determinate dai processi di globalizzazione, il ruolo della centralità è sempre meno affidato alle relazioni strettamente economiche e funzionali (le funzioni “centrali” del terziario e del quaternario) e sempre più alle relazioni simboliche, alle immagini identitarie e alle dinamiche “intangibili”. E’ soprattutto su queste che fanno leva le politiche di marketing con le quali città e territori cercano di affrontare con speranze di successo le sfide competitive che si profilano a livello internazionale. E’ su queste che recenti documenti Unesco (2009) richiamano l’attenzione, sottolineando il ruolo complesso che la “messinscena” paesistica svolge combinando le immagini durevoli della città storica con le suggestioni delle nuove architetture che ne ridisegnano i rapporti col contesto extraurbano. Le tensioni che ne derivano non sono certo esenti da equivoci e contraddizioni. Come dimostrano le aspre contese che hanno accompagnato la “verticalizzazione” di tante città europee (i grattacieli di Londra o di Parigi o di Milano) è evidente il rischio che proprio le nuove immagini della “modernizzazione urbana”, prendendo le distanze dall’eredità storica dei singoli paesaggi urbani e mettendosi al servizio degli stessi meccanismi speculativi che dominano il mercato immobiliare, ne configurino paradossalmente la sostanziale omologazione. In prospettiva internazionale, il rischio che i sogni della “città europea”, orgogliosamente contrapposta alla città “americana” per la complessità della sua stratificazione storica, cancellino ogni attenzione per i caratteri distintivi, le regole di coerenza e le qualità specifiche dell’urbanità contemporanea.

 

E’ questa la posta in gioco: la centralità urbana e il suo significato per la società contemporanea, come livello specifico dell’urbanità, essenza ultima di quel “diritto alla città” (Lefebvre 1970) su cui si svilupparono le lotte urbane degli anni ’70; ma nuovamente al centro della domanda sociale di città e di memoria. E’ il caso paradigmatico dell’Aquila, dove l’urgenza dei nuovi interventi sostitutivi per i “terremotati” ha gettato nell’ombra l’esigenza di recuperare la città storica e i suoi valori socioculturali, appassionatamente propugnata dai suoi abitanti. In prospettiva internazionale, la crisi delle politiche “centriste” (emblematizzate dalle new towns e dalle villes nouvelles) concorre a mettere in discussione l’idea che soltanto lo spazio della convergenza e dell’aggregazione fisica – la piazza – possa ospitare i valori di centralità e che al contrario gli spazi aperti, la campagna e gli spazi della “dissoluzione urbana” vi si oppongano dialetticamente. Questa discussione ha particolare rilevanza per i centri storici. Essa ne investe anzitutto il ruolo “centrale” sotto il profilo economico-funzionale, sociale e culturale, nell’ambito dei rapporti tra città compatta e città diffusa. Rapporti assai più problematici di quanto non emergesse nelle critiche alla dispersione urbana dei decenni scorsi, che vanno ripensati a fronte dell’emergere della città “reticolare” (Dematteis 1995, Gambino 2009), preludio forse di nuove più complesse forme di metropolizzazione (Indovina 2010), In queste nuove configurazioni urbane i grandi eventi prendono sempre più spesso forma fuori dei luoghi tradizionali, la quotidianità si appropria di spazi inconsueti, i giovani reinventano continuamente gli spazi della creatività. Ma la discussione investe anche l’altro termine del concetto di centro storico, la sua storicità, negandone in radice la possibilità di ancorarla a precise e stabili delimitazioni spaziali. La riarticolazione della centralità urbana non riguarda pezzi di città o brani staccabili di territorio, ma il territorio storico nella sua complessità.

 

4. Il nuovo ruolo degli spazi liberi

 

Nella città e nel territorio storico contemporaneo, dentro o ai bordi dello spazio “costruito”, gli spazi liberi sono sempre meno interpretabili con la metafora ambigua del ”verde urbano”, sempre più spesso teatro della nuova fenomenologia urbana. Teatro che non si racchiude nei confini stabili dell’urbano, poiché si ramifica dinamicamente nelle reti territoriali, che entrano ed escono dalla città compatta (tipicamente con le fasce fluviali e i sistemi delle acque), la attraversano e la legano al contesto territoriale. In questo quadro la “rinaturalizzazione” della città, oggetto di politiche urbane e territoriali ricorrenti a livello internazionale, può assumere un significato nuovo e diverso. Va pensata non tanto per concedere al verde qualche metro in più, quanto per riportare la natura in città restituendole la pienezza di quel significato ecologico, storico e culturale, che traspare vividamente dall’iconografia storica. Gli sforzi che in tante città europee a cominciare da Londra si stanno facendo per ripensare e attualizzare l’idea delle “cinture verdi”, nelle nuove prospettive della città reticolare diramata sul territorio, testimoniano la difficoltà di individuare nuove logiche organizzative, capaci di integrare spazi aperti e spazi chiusi, paesaggi urbani e paesaggi rurali, dinamiche insediative e dinamiche ambientali. In questa direzione le politiche di conservazione della natura e del paesaggio sembrano destinate a sfidare la cultura urbanistica, costringendola ad uscire dai suoi recinti tradizionali (legati più o meno rigidamente all’ambiente costruito) per assumersi nuove più pesanti responsabilità in ordine alla realizzazione dello spazio pubblico e dello stato sociale.

 

D’altronde, nell’esperienza europea la costruzione delle reti ecologiche – per contrastare o ridurre la frammentazione ecologica e paesistica del territorio, restituendogli un minimo di connettività e di permeabilità, soprattutto nelle grandi aree urbanizzate – ha già assunto scopi diversi e più complessi di quelli, strettamente biologici, originari (Ced-Ppn, 2008). Nella città reticolare che si profila nei nuovi orizzonti urbani, le reti di connessione non possono avere solo funzioni biologiche, di collegamento tra habitat e risorse naturali che rischiano l’insularizzazione, ma assumono inevitabilmente un significato più denso e complesso, che integra natura e cultura collegando risorse e valori diversi. Si avverte sempre più l’esigenza di realizzare nuove “infrastrutture ambientali” capaci di innervare l’intero territorio, svolgendo un ruolo di sostegno non meno importante di quello tradizionalmente assegnato alle reti dei trasporti, delle comunicazioni o dell’energia. Ma questa esigenza non si manifesta solo “in uscita” dalla città, vale a dire verso i territori della dispersione insediativa e dell’espansione urbana, ma anche “in entrata”, vale a dire nelle maglie della città compatta. L’interesse crescente per i programmi di rigenerazione volti a riportare la natura in città (“greening the city”), per i progetti di recupero e riqualificazione delle fasce fluviali e per i sistemi delle acque storicamente consolidati, per il riuso non meramente immobiliare dei “vuoti urbani” e delle grandi aree dismesse, segnala il maturare di una nuova consapevolezza dei grovigli di deficit che occorre rimuovere.

 

5. Parchi e paesaggi, nuove alleanze

 

Lungi dal potersi rinchiudere in orizzonti settoriali e in pericolose politiche d’emergenza, la conservazione innovativa della qualità del territorio richiede strategie lungimiranti d’intervento strutturale e preventivo, che guardino non solo alle “eccellenze” ma all’insieme del territorio; è questo che va salvato e valorizzato, non le singole “cose” che ospita. Le nuove visioni che caratterizzano gli scenari internazionali, i nuovi paradigmi che dovrebbero guidare la conservazione della natura, le prospettive reticolari che si profilano nelle città e nei territori contemporanei, sollecitano strategie diramate e complesse, trans-scalari e pluri-settoriali. Calamità falsamente naturali e tragedie ambientali quotidiane ribadiscono la necessità e l’urgenza di collegare la tutela e la valorizzazione delle città e dei centri storici, dei paesaggi e del patrimonio culturale al rispetto della natura e del contesto ambientale, oggi oggetto di politiche largamente, drammaticamente separate. Convergono, nella crisi che attraversiamo, cause diverse, che attengono all’indebolimento e alla inadeguatezza degli apparati istituzionali e di governo, ma anche alla scarsa fiducia negli atteggiamenti cooperativi, nelle possibilità di partnership e di collaborazione inter-istituzionale: anche quando, come nel nostro paese, la “leale collaborazione” tra le istituzioni di governo è esplicitamente richiesta dalla stessa Costituzione. Si determina quindi una difficoltà insuperabile nella costruzione di quella “intelligenza collettiva” dell’impresa, della politica e del progetto (SIU, 2011) che costituisce una condizione indispensabile per affrontare con speranza di successo le sfide del territorio.

 

Nel tentativo di cambiare rotta, si profilano in particolare nuove alleanze tra politiche per la natura e politiche per il paesaggio (Gambino 2009, 2010). Le ragioni sono molteplici e affondano le radici nella comune esigenza di incidere positivamente nel governo del territorio. Da un lato si constata che le politiche di conservazione della natura, nonostante le carenze e le contraddizioni dell’azione pubblica, stanno assumendo un rilievo inaspettato nelle politiche locali e regionali. In particolare, nel 2010, l’Anno della Biodiversità, è stato largamente ribadito il ruolo centrale dei parchi e delle “aree naturali protette”, sia di quelle istituite dai singoli Stati con riferimento alle definizioni dell’Unione Mondiale della natura (IUCN 1994), sia di quelle istituite a livello sovra-nazionale, come la Rete Natura 2000 per i paesi dell’Unione Europea. Una spettacolare e incessante crescita dell’insieme di aree protette ha portato negli ultimi decenni ad estenderle ad una quota assai rilevante del territorio complessivo: in Europa si stima che oltre un quarto ne sia coperto e che quindi oltre un quarto della popolazione sia direttamente influenzata dalla loro gestione (CED-PPN 2008). Tale quota può essere ulteriormente aumentata se si considera che i “nuovi paradigmi” sanciti dall’IUCN spingono ad estendere i benefici delle aree protette ai rispettivi contesti territoriali (IUCN 2003). Dall’altro lato, le politiche del paesaggio, secondo gli orientamenti fissati dalla Convenzione Europea, riguardano l’intero territorio e sono esplicitamente chiamate ad incidere su ogni politica, dall’urbanistica ai trasporti all’agricoltura, che possa comportare la conservazione e la trasformazione del paesaggio. Ma, nonostante la concordanza dei fini e la larga sovrapposizione tra le aree naturali protette e i paesaggi a vario titolo tutelati, le rispettive politiche sono, in generale, sostanzialmente separate: le politiche dei parchi fanno capo ad istituzioni, a strumenti e forme di regolazione e a strategie generalmente diverse, salvo che nel caso di vera e propria sovrapposizione (come per le “aree protette” ricadenti dei “paesaggi protetti” così classificati dall’IUCN, che coprono peraltro più di metà del territorio protetto). Nel caso dell’Italia, la difficoltà del raccordo tra i due ordini di politiche è ben rappresentata dalla contraddizione tra l’art.12 L.394, che affida ai Piani dei Parchi un ruolo “sostitutivo” nei confronti di ogni altro piano, e l’art…. del Codice … che attribuisce invece ai Piani Paesaggistici una sorta di primato nei confronti anche dei Piani dei Parchi.

 

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, sembra dunque profilarsi una doppia necessità di integrazione, delle politiche della natura e del paesaggio con le politiche del territorio. Un ambizioso programma di ricerca in tal senso, avente come campo d’attenzione l’intera Europa, fu presentato a Barcellona nell’ambito del Congresso IUCN (Gambino…). L’alleanza tra parchi e paesaggi non può che trovare un terreno comune di applicazione nel contesto territoriale e in una prospettiva autenticamente progettuale. Il “progetto di territorio” (Magnaghi 1998) è stato da tempo indicato come il luogo dell’integrazione degli interessi pubblici diversi, della valutazione e composizione dei valori e dell’orientamento strategico delle politiche di regolazione dei processi trasformativi. E già 50 anni fa documenti come la Carta di Gubbio (ANCSA1960) attribuivano al Piano Regolatore il compito di delineare le “azioni d’insieme” necessarie per il risanamento dei centri storici. Molti altri problemi attinenti l’insediamento umano hanno concorso in seguito a complessificare ed aggravare la questione urbana, sollecitando politiche pluritematiche convergenti, in grado di contrastare la settorialità dell’azione pubblica e la sua schiacciante dipendenza dalle logiche dell’emergenza E’ difficile pensare che esse possano fare a meno del “progetto di territorio” latamente inteso, come processo sociale ampio e condiviso, capace di rispecchiare, per dirla col Sereni, i “disegni territoriali” delle popolazioni locali. Processo che non può evitare di muoversi in un orizzonte cooperativo, in cui l’azione fondamentale dei soggetti e dei poteri locali trovi i necessari riscontri a livello regionale, nazionale e sovra-nazionale.

 

 

*

Il testo riprende in parte la relazione dell’autore al Convegno internazionale dell’ANCSA su “Attualità del territorio storico” a Bergamo nel 2011.

 

Riferimenti

 

- ANCSA, 1990: La nuova Carta di Gubbio. Un contributo italiano alla riqualificazione della città esistente, XI Convegno-congresso nazionale, Gubbio.

- ANCSA, 1997: Patrimonio 2000. Un progetto per il territorio storico nei prossimi decenni, XII Convegno-congresso nazionale, Modena.

- Bauman Z., 2008: La solitudine del cittadino globale, UE Feltrinelli, Milano.

- Cattaneo C., 1845: Industria e morale, in Atti della Società d’Incoraggiamento d’arti e mestieri, Milano.

- CoE, Consiglio d’Europa, 2000: Convenzione Europea del Paesaggio, Firenze.

- CED-PPN (Centro Europeo di Documentazione sulla Pianificazione dei Parchi Naturali), 2008: Parchi d’Europa, ETS, Pisa.

- Choay F., 1993: L’allegoria del patrimonio, Officina, Roma.

- Dematteis G., 1995: Progetto implicito, F.Angeli, Milano.

- Donadieu P.,2006 La campagna urbana ( a cura di M.Mininni), Donzelli, Roma.

- Kuchner J.A., 2008: Global Climate Change and the Road to Extinction,Caroline Academic Press, Durham.

- Gambino R., 1983: Centralità e territorio, Celid, Torino.

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