Indice
Nuovi paradigmi
I nuovi paradigmi per le aree naturali protette
Al fine di integrare efficacemente le politiche per la natura con quelle per il paesaggio e il patrimonio culturale, occorre considerare i modi con cui i principi sopra richiamati trovano applicazione nei diversi campi d’azione: le prospettive e gli orientamenti gestionali, le matrici di idee e i quadri metodologici di riferimento sono infatti cambiati assai più di quanto normalmente si pensa. Nel 2003, in occasione del V Congresso Mondiale dei parchi, l’Unione Mondiale della Natura lanciò i “nuovi paradigmi” per i parchi e le aree protette, frutto di un’elaborazione complessa e non esente da contrasti, ulteriormente sviluppata negli anni successivi. Pur muovendosi nel solco del pensiero dell’IUCN, essi propongono alcune innovazioni importanti ai fini di queste note (Phillips 2003). In primo luogo, un netto contrasto all’“insularizzazione” delle aree protette, vale a dire alla visione ancora sostanzialmente dominante che le configura come “isole” da tutelare immerse in contesti ambientalmente ostili o comunque separati sotto il profilo ecologico, paesistico e culturale. Configurazione che non solo le rende vulnerabili (nessun parco, compresi i grandissimi parchi nordamericani, asiatici o africani, è grande abbastanza da poter essere efficacemente protetto solo al proprio interno), ma ostacola anche l’irradiamento dei benefici prodotti dalla valorizzazione “al di là” delle frontiere, in termini di sviluppo sostenibile. Alla logica “insulare”si contrappone in particolare la logica “reticolare” affidata alle reti di connessione ecologica. In secondo luogo, i nuovi paradigmi mettono in discussione la missione stessa dei parchi e delle aree protette, postulando un allargamento del ventaglio degli obiettivi, da quelli strettamente ecologici a quelli sociali e culturali. In terzo luogo, si introduce esplicitamente il rapporto con le popolazioni e le comunità locali, riconoscendone un ruolo attivo e potenzialmente anche prioritario nella gestione delle aree protette (le loro istanze di sviluppo prendono il sopravvento rispetto agli interessi dei visitatori). Per tutti e tre gli aspetti sembra valere la suggestiva metafora delle reti evocata dal Chatwin (1988), che contrappone alle reti ecologiche specie-specifiche (come le rotte dei lupi o quelle degli orsi) le Vie dei Canti o le Piste dei Sogni degli aborigeni australiani, che trasformano il paese in “reticolati di percorsi di popolazioni non stanziali” (Gambino 2007).
Il mondo delle aree protette
Sebbene i nuovi paradigmi investano più o meno esplicitamente il quadro complessivo della conservazione della natura e più precisamente della difesa della biodiversità, il loro significato va posto in relazione con la realtà complessa e multiforme delle aree protette, i cui lineamenti principali riguardano (CED PPN 2008):
- l’elevata incidenza territoriale, pur variabile tra le diverse parti del pianeta, i paesi e le regioni: la superficie protetta dalle “aree protette” istituite dalle nazioni e riconosciute dall’IUCN copre il 13% della superficie territoriale complessiva a livello globale, il 18% a livello europeo; ad essa si aggiunge e in parte si sovrappone la superficie protetta da istituzioni sovra-nazionali, come le zone umide degli accordi di Ramsar o i Siti della direttiva europea “Natura 2000”;
- la crescita impetuosa ed incessante del numero e della superficie delle aree protette (crescita ancora del 23% della superficie protetta nell’ultimo decennio) e più in generale del loro impatto territoriale, economico, politico, sociale e culturale; crescita che attesta la persistenza di un rilevante consenso sociale, ma nasconde altresì la scarsa efficacia gestionale di un parte cospicua delle aree protette e i loro rapporti irrisoti con le comunità locali;
- l’estrema e crescente diversificazione delle aree protette, solo in parte riconducibile alle classificazioni proposte dall’IUCN (1994 e 2008) e che, in generale, lascia intravedere un forte spostamento dai “santuari della natura” e dalla “wilderness” verso le aree rurali e quelle prossime od inglobate in contesti più densamente urbanizzati; ciò vale soprattutto in Europa, dove, significativamente, più della metà delle aree protette sono classificate come “paesaggi protetti”;
- la crescente frammentazione ecologica e paesistica, sia all’interno delle aree protette che nei rispettivi contesti, in funzione della dispersione degli sviluppi insediativi, della proliferazione infrastrutturale, della “ingegnerizzazione” del territorio.
Il paradigma paesistico secondo la CEP
Nell’insieme, i nuovi paradigmi per la conservazione della natura sembrano interpretare le tendenze in atto nel senso di una necessaria e crescente apertura al paesaggio e al territorio. A questa fa simmetrico riscontro il “paradigma paesistico” maturato nell’ambito della Convenzione Europea del Paesaggio. Questa infatti sembra strappare definitivamente la nozione sociale del paesaggio dalle interpretazioni settoriali e richiederne invece una interpretazione olistica, capace di mettere in conto congiuntamente dimensioni diverse, da quella ecologica (richiamata dalle interazioni tra fattori naturali e fattori antropici), a quella sociale (componente del contesto di vita delle popolazioni) a quella semiologica, estetica e culturale (espressione del comune patrimonio e fondamento dell’identità). Il paradigma paesistico, come configurato nella Convenzione, non sembra rimuovere l’ambiguità di fondo del paesaggio (Gambino 1994b), quel suo alludere contemporaneamente all’immagine della realtà e alla realtà osservata, quel suo proporre una bi-sociazione (quale quella colta dal Koestler, 1964, nell’emblematica figura di Don Chisciotte, tra realtà e immaginazione) aperta e mai conclusa tra fatti e rappresentazioni. Ma la Convenzione prende le distanze sia dall’oggettivismo scientifico intriso di determinismo e carico di certezze tipico della Landscape Ecology, sia dal soggettivismo che ha impregnato gran parte della lettura estetizzante coltivata dalla tradizione italiana. Certo, essa dà spazio all’interpretazione semiologica (il paesaggio è un formidabile strumento di comunicazione), ma con un’importante implicazione: che il sistema segnico del paesaggio non può in alcun modo tradursi in un insieme “dato” di significati, che la semiosi paesistica è un processo sempre aperto (Dematteis 1998). La dinamica delle cose - l’ecosfera - è inseparabile dalla dinamica dei significati - la semisfera - e quindi dai processi sociali in cui questa si produce (ibidem). Ne segue che il paesaggio, in quanto spazio di semiosi aperta, non può essere quello, cognitivamente perfetto (Socco 1998) che forma oggetto delle scienze dure. È in questa dinamica apertura che si collocano le sue funzioni simboliche e metaforiche, estetiche e narrative, e i suoi depositi mitici e memoriali. Certo, il paesaggio è teatro (Turri 1997); ma non un teatro “dato”, con le sue scene fisse e i suoi fondali immobili, dove soltanto attori e spettatori possono cambiare.
Un ponte tra natura e cultura
È in questo senso complesso che il paesaggio lancia un ponte tra natura e cultura, oltrepassando la rappresentazione “occidentale” del rapporto tra l’uomo e la natura e mettendo in discussione il dualismo cartesiano tra il corpo e la mente, tra lo spirito e la materia (Cini 2000). La dissoluzione della “naturalità” della natura, se da un lato apre la strada a nuovi valori universali (Giddens 1997 citato da Cini op.cit) dall’altro avvalora la tesi di Bateson ed altri, che nega in radice la possibilità di distinguere le scienze umane dalle scienze naturali. Da questo punto di vista, il paradigma paesistico va incontro alla natura non tanto per allargare il proprio campo d’attenzione, quanto piuttosto perché la natura fa parte integrante e imprescindibile del dispositivo paesistico. Si potrebbe osservare che ciò era già implicito nella “stimmung” di Simmel (1912), non meno che nelle “scoperte” fondamentali di von Humboldt (1860). Ma più ancora dei millenari processi di “domesticazione” del mondo naturale, sono gli attuali pervasivi processi di “simulazione” (Raffestin 1998) a piegare definitivamente le dinamiche naturali alle nuove geometrie dell’azione antropica, pretendendone una interpretazione unitaria. Questa è anche la ragione per cui l’allargamento della valenza paesistica all’intero territorio (voluto dalla Convenzione) non va visto come una semplice dilatazione spaziale delle istanze di tutela, ma implica una visione diversa dell’accoppiamento tra natura e paesaggio, in linea con il principio di conservazione sopra ricordato.
Un nuovo rapporto tra natura e città
La bipolarizzazione tra natura e cultura, e in particolare tra parchi e città - splendidamente rappresentata nella prospettiva rinascimentale, ripresa in visioni ottocentesche come quella di F.L. Olmsted (che quasi contemporaneamente progetta il Central Park nel cuore di New York e il primo grande parco naturale statale americano, quello di Yosemite) e tuttora operante - è stata messa a dura prova dai grandi cambiamenti economici-territoriali. Cambiamenti il cui aspetto più emblematico è rappresentato appunto dall’“urbanizzazione” del mondo naturale, in termini di contaminazione spaziale che ne cancella ogni riconoscibile confine, di allargamento continuo dell’“impronta ecologica” della città, di impatto crescente della cultura urbana che orienta i comportamenti e gli sguardi dei cittadini sugli spazi e le risorse naturali. Il paradigma classico del rapporto tra natura e città deve essere radicalmente ripensato, in funzione dei nuovi significati che la “naturalità” e l’”urbanità”, figlie entrambe della cultura e della storia, hanno assunto per la società contemporanea. “I luoghi centrali della vita collettiva, i luoghi dell’identità e del senso comune dello spazio, non sono più soltanto dentro alla città compatta ereditata dal passato, così come il contatto con la natura non può essere relegato ai margini dello spazio abitato, ma va riconquistato dentro alla città contemporanea, respingendo le seduzioni ingannevoli della zonizzazione moderna [….]. L’interesse crescente per i programmi di rigenerazione volti a “riportare la natura in città (greening the city), per i progetti di recupero e riqualificazione delle fasce fluviali per i sistemi delle acque storicamente consolidati, per il riuso non meramente immobiliare dei ‘vuoti urbani’ e delle grandi aree dimesse, segnala il maturare di una nuova consapevolezza dei deficit che occorre rimuovere […]. Il tema del rapporto tra parchi e città si inquadra allora in quello più ampio delle reti e degli spazi di relazione nel territorio contemporaneo: delle piazze e delle vie, dei luoghi e delle loro connessioni, dei solchi fluviali che lo attraversano e del verde urbano che gli consente di respirare. Non mera architettura di contesto, ma sistema connettivo diramato e complesso che lega esterno e interno, eredità storiche e dinamiche ambientali”(Gambino 2007b).
Paesaggi culturali o cultura dei paesaggi?
Queste considerazioni inducono peraltro a mettere in discussione un concetto che ha raccolto grande interesse a livello internazionale soprattutto nell’ultimo decennio: quello di “paesaggio culturale”. Concetto che non soltanto ha portato a individuare una molteplicità di campi specifici di sperimentazione delle politiche del paesaggio; ma che ha trovato anche riscontro nei criteri con cui l’Unesco costruisce la lista dei Siti del Patrimonio Mondiale dell’Umanità (dal 1992 sono stati infatti inseriti nella lista anche un certo numero di paesaggi culturali di eccezionale valore, integrando la Convenzione 1972). Ora la domanda che si pone al riguardo è questa: se si riconosce in generale ai paesaggi (tutti, compresi quelli dell’ordinarietà e del degrado), un insopprimibile significato culturale, ha ancora senso individuare nella valenza culturale il carattere distintivo con cui selezionare i Siti “eccezionali”da inserire nella lista? Notiamo di sfuggita che analoga domanda può, in definitiva proporsi per tutte le “aree naturali protette” nella misura in cui le si riconosce portatrici di una speciale valenza naturalistica.