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L’abbandono e i piani per il governo del territorio

Indice

L’abbandono come fase organica del processo territoriale

 

E’ indispensabile distinguere tra il processo e l’evento.

Se si considera l’abbandono come un evento, che turba un ordine precostituito, non si può che valutarne gli aspetti di criticità e in qualche misura l’irreversibilità, effetti che non sono quasi mai governabili in una strategia di fase. Cioè l’abbandono risulta una crisi che interrompe i processi ordinari presenti sul territorio, di qualsiasi genere essi siano: di gestione, di governo, di comunicazione... . In una considerazione statica degli assetti socioeconomici e culturali del territorio non si affrontano i processi e ci si attesta impotenti a fronte degli eventi: accade per le alluvioni, per gli intasamenti infrastrutturali, per la descolarizzazione e a maggior ragione per gli abbandoni.  In questi termini l’abbandono, quando avviene, determina per definizione una crisi  catastrofica e ingovernabile, il che legittima la resa di ogni pianificatore.

I processi non possono essere correttamente affrontati se i sintomi che li denunciano vengono considerati turbative di un ordine stabile, in riferimento al quale si orientano gli sforzi di governo del territorio per un suo ristabilimento: come si fa con un corpo agitato da una malattia. Così il governo del territorio tende al ripristino di situazioni inerziali, alla restaurazione di ordini preesistenti ai cambiamenti, non prende in esame i possibili percorsi evolutivi diversi del sistema conosciuto sinché un evento non risolve senza appello la continuità.

Semmai la pianificazione agisce innovativamente sulle conseguenze dell’abbandono, sul dopo catastrofe, sul caos che Prigogine mette all’origine dei grandi rinnovamenti naturali.[1].

Se l’abbandono fa parte degli eventi che costituiscono un punto di non ritorno, in assonanza con Prigogine si presume che generi una situazione caotica, a partire dalla quale si va instaurando un nuovo assetto con regole e paradigmi oggi non prevedibili.

Dopo l’abbandono il territorio e la risorsa diventano materia bruta, destrutturata, a cui si può forse applicare più facilmente il disegno di un piano con paradigmi e canoni precostituiti. E’ il caso atteso dal rivoluzionario, dove l’abbandono “fa piazza pulita”, lascia un mondo nuovo, apparentemente senza passato influente sul futuro, in cui si pensa poter applicare il modello ingenuo e feroce del piano astratto, utopico. Questa prospettiva piace al pensatore moderno così come all’architetto moderno piace poter demolire ogni traccia di preesistenza per poter situare il proprio edificio in un foglio bianco, a fare i conti solo con sè stesso.

Viceversa una attenzione ai processi di abbandono tende a considerarne le premesse e la maturazione entro un contesto complessivo, consente di studiare le cause e forse i rimedi dello squilibrio mentre questo si sta formando, quando non ha ancora assunto la velocità e l’orientamento irreversibile dell’evento critico.

Portando uno sguardo sul mondo e sulla storia in quest’ottica ci si accorge che ogni situazione sociale è squilibrata, è permanentemente in fase di abbandono per alcuni ambiti o attività, e viceversa e contemporaneamente di riappropriazione per altri, come leggono puntualmente gli studiosi della territorialità umana.[2]

Ma non basta adottare una visione dinamica delle situazioni territoriali, apprezzare i processi, per assumere il controllo degli esiti: occorre padroneggiare il quadro di riferimento entro cui il processo è inserito, e del processo valutare con largo anticipo le dinamiche organiche o viceversa quelle potenzialmente critiche rispetto a quel quadro. In termini territoriali: occorre considerare se l’impoverimento di energie e risorse, in corso in una data attività o in un dato tipo di siti, è funzionale alla complessiva vitalità dell’ambito locale in cui tali attività e siti sono inseriti, o se viceversa diminuisce le potenzialità di adeguamento della qualità della vita e quindi l’autonomia dell’ambito nel suo insieme.[3]

In questa logica l’abbandono non è a-priori un insulto allo sviluppo e alla qualità della vita della società che lo vive, ma va considerato, processo per processo, nelle sue potenzialità e nelle sue ricadute, nelle prospettive che apre liberando risorse rimaste ingabbiate entro utilizzi superati dal resto delle pratiche sociali, o viceversa nelle potenzialità che si perdono disarticolando organizzazioni e comportamenti che erano insostituibili per dare valore a quelle attività o a quei luoghi.

 


[1] cfr. Ilya Prigogine, Isabella Stengers,1979, La nuova alleanza. Metamorfosi della Scienza,(tr.it. 1981 Einaudi )

Ilya Progogine, Gregoire Nicolis,1989,  La complessità. Esplorazioni nei nuovi campi delle scienze , Freeman and Company,(tr.it. 1991 Einaudi )

[2] cfr. Claude Raffestin,  Dario LOPRENO, Yvan PASTEUR , 1995 Géopolitique et histoire, Lausanne, Payot et Paris, Payot,

Alberto Magnaghi, 1990, Il territorio dell’abitare, Franco Angeli,

[3] sull’autonomia è in corso un importante dibattito, acceso anche dalle perverse interpretazioni politiche. Sembra importante ripartire da riferimenti classici e istituzionali: da Carlo Cattaneo alla Carta del Consiglio d'Europa dell'autonomia locale del 1989  alla dichiarazione europea di  Salamanca del 2001