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SuperLS4

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Lunedì, 20 Marzo 2017 00:00

Dossier Benedetta Castiglioni

Benedetta Castiglioni - Scritti recenti

Si inaugura con questo una serie di dossier sui ricercatori più interessanti in tema di paesaggio.

Di Castiglioni sono riprodotti i saggi apparsi negli ultimi anni:

2010 - Educare al paesaggio

2015 - Landscape as mediator Landscape as common

2015 – Tre anni di Osservatori del paesaggio in Veneto: una valutazione

2016 – L’educazione al paesaggio

2016 – Riconoscere, vivere e riprogettare i limiti

Paesaggio e arte al tempo dello smartphone

Quando la sensibilità passa per il formato 4 inch. Nuove professioni per far ponti tra pratiche della realtà virtuale e pratiche dell’abitare nel mondo fisico.

A pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, diceva il maestro. Così grandi pensatori pessimisti del ‘900 hanno fiutato l’aria che tirava e ci hanno messo in guardia, ben prima che noi ce ne accorgessimo.

Tra i primi Benjamin che ottant’anni fa è spaventato dalla riproducibilità tecnica delle opere d’arte, per cui si perde l’aura di riverenza e di attenzione che l’arte imponeva quando era inequivocabilmente frutto di fatica e abilità uniche.   McLuhan cinquant’anni fa è sarcastico nel notare che il medium è il messaggio, cioè che noi captiamo informazioni (e prendiamo decisioni) più in base al mezzo che ce le veicola che per il contenuto veicolato. Lyotard 35 anni fa definisce post-moderno il modo nuovo di acquisire cultura, che si va affermando: superficiale e per frammenti, rizomatico (invece che a radice profonda, come il modello precedente, del moderno). Nell’attuale evo post-moderno sembrano andare fuori uso le parole intelligente (leggere o legare dentro, in profondità), o comprendere (mettere insieme, riunire) e invece avanzano effimero e decostruzione: ci si libera dei legami bloccanti, si stabiliscono relazioni nuove, anche se si sa che durano il tempo di “una porta che si apre e che si chiude”.

Così, quando lo smartphone negli ultimi dieci anni ribalta ogni abitudine comunicativa e culturale, facendo regnare il motore di ricerca per sillabe e la memoria nel cloud, sembra che gli illuminati del ‘900 sorridano tristemente pensando: io l’avevo detto. Ma, come sempre accade, la realtà è diversa, nel bene e nel male: assistiamo (come davanti a un esodo, ci suggerisce il bell’articolo di Arminio su Doppiozero) a dinamiche che in parte confermano le previsioni e in parte le superano in direzioni difficili da immaginare anche dal più visionario Philip Dick della fantascienza.

Per capire cosa c’è in gioco dobbiamo assumere l’ipotesi, realistica, che l’enormità del cambiamento a cui assistiamo sia paragonabile a quella della transizione da cacciatori ad agricoltori (da Caino ad Abele), da cultura orale a scritta, da habitat rurale a habitat urbano.

Per chi lavora sulla comprensione e comunicazione di aspetti complessi, come il paesaggio, è più facile leggere la dimensione epocale del cambiamento di comportamenti indotti dall’impero dello smartphone, che diventa velocemente cambiamento di competenze profonde, non solo per le capacità operative ma anche per la sensibilità e il senso di identità personale.

Quindi provo ad aggiungere, ai molti aspetti di questo cambiamento radicale già delineati da sociologi e filosofi, una criticità strutturale che emerge dalle pratiche del paesaggio e della fruizione dell’arte.

La gestione contemporanea di due realtà, una del corpo nel luogo dove sta e una mentale che attende alla relazione immateriale attraverso lo smartphone, determina non solo un rischio di dissociazione, ma un necessario impoverimento del rapporto con ciascuna delle realtà.

Nel rapporto immateriale si rinuncia a ogni approfondimento della conoscenza a favore della sua velocità istantanea, uno scambio devastante per gli aspetti cognitivi complessivi. Ci si disabitua al mestiere del sapere, che è la pratica di strutturazione delle relazioni tra le informazioni, in particolare tra quelle in entrata e quelle già organizzate nella memoria. Ci appoggiamo, senza far intervenire la nostra precedente esperienza, a struttturazioni precotte, elaborate da un motore di ricerca letterale; crediamo di capire (carpire) leggendo le prime tre righe della voce di Wikipedia, che è sintesi fatta da altri (buona o cattiva: random). Se smettiamo di allenare il muscolo dell’autonoma organizzazione delle informazioni, la nostra mente riduce la capacità di elaborazione di pensieri personali e diventa solo un veicolo neutro di stimoli che dall’esterno vanno sui sensori primari: le pulsioni, gli istinti.

D’altra parte la reazione istantanea è il nuovo comandamento, imponendo alle nostre attività mentali una velocità senza controllo che si aggiunge alla destrutturazione del pensiero. Siamo spinti a giudizi immediati nei quali prevalgono istinti e pulsioni piuttosto che riflessioni e confronti con altre esperienze memorizzate. Buona la prima! A quel punto pare semplice decidere: ci basta un like, un emoticon (o un voto) per classificare la “nostra” posizione. Un clik spersonalizzato che di “nostro” non ha più nulla.

Ma c’è un’altra rinuncia, non meno grave, nel rapporto fisico con i luoghi. Con la mente altrove, viene disabilitato quell’essere-in, che la filosofia del ‘900 riconosce come fattore fondamentale del senso di sé. Non ha più importanza dove si è: rinunciamo a rinforzare la nostra identità in quanto abitanti di un luogo. E’ come perdere il senso dell’equilibrio, che ci fa sentire NOI in quanto poggiamo i piedi su una terra che conosciamo, dove siamo rassicurati dal fare atti che si ripetono, in un contesto che padroneggiamo.

Non si tratta solo di rinuncia a processi di conferma identitaria: ci disabituiamo a trarre profitto culturale dall’osservazione del nostro intorno. Non sappiamo più cogliere l’eventuale, il fortuito che caratterizza l’habitat urbano dove alberga il nostro corpo. Non aspettiamo l’inaspettato, la serendipity della città non esiste più perché non attiviamo i recettori: non prestiamo attenzione, non esercitiamo la curiosità e quindi nulla interessa e diverte di ciò che ci circonda. In altri termini: non abbiamo più il senso del paesaggio.

Concentrati sullo schermo da 4 inch, dove le immagini più diverse sostano qualche secondo, la nostra sensibilità si specializza. Si perde il senso olistico della presenza nel luogo e nell’evento, quella confluenza dei sensi che si aggiungono alla vista consentendo l’immersione esperienziale che ci ricordiamo quando diciamo “io c’ero”.  Nella piccola riproduzione a dimensione costante si perde non solo l’aura dell’opera d’arte ma anche il senso della profondità e delle proporzioni: la Nike vale un orecchino, una photoshoppata vale un affresco del Tiepolo. Insomma non viene stimolata alcuna convergenza di sensi e di memoria complessa, che sono le materie prime alla base delle emozioni: quelle che incantano circondati dalle ninfee di Monet, che ci fanno piangere sentendo una musica in viaggio, che ci fanno tornare felici e spossati da un concerto, che ci fanno dire che le orecchiette con le cime di rapa sul terrazzo di nonna sono tra le cose per cui vale la pena vivere.

Se lo smartphone mette in clausura le emozioni profonde, il ruolo della sensibilità si ridimensiona. Quella sensibilità integrata e allenata, che da 200 anni si era conquistato un posto importante nella nostra personalità romantica viene ricacciata nei registri vezzosi del ‘700, ridotta ad apprezzamento della piacevolezza e della carineria: trionfano sui cellulari cagnolini e disegni per bambine, pettegolezzi e smancerie. L’arte, che tenta di toccare la sensibilità allenata, portata sullo smartphone è persa, Ve bene se trova l’occhiata distratta di chi sfoglia per qualche secondo un catalogo dove Bacon, Haring e Morandi si susseguono mescolati all’ultimo fotografo o videomaker.

Se, come credo, ci stiamo tutti trasferendo in questo non-luogo non emozionante e non identitario, se i millennials lo abitano già da quando sono nati, non possiamo fare solo una battaglia di resistenza e tentare di sopravvivere com’eravamo e dove eravamo. Lo smartphone, come tutti gli strumenti è una risorsa non solo una droga che dà assuefazione all’impotenza della sensibilità. Dobbiamo capire come fare tesoro delle risorse che il nuovo medium ci mette a disposizione e usarle per ricostruire i ponti tra le due realtà, finché possiamo contare su sensibilità capaci di emozionare, personalità capaci di stupirsi, di agire riflessivamente e non d’impulso.

Ad esempio stiamo provando a usare il cellulare come atlante, per far mappe ricche di immagini e documenti riferiti ai luoghi che si visitano, per abituare a usare la realtà virtuale in appoggio a quella fisica e non come entità separata. E’ una professionalità nuova, in cui ci si incuriosisce e appassiona a pescare nei depositi infiniti del sapere e si riportano sul palcoscenico del web frammenti di conoscenza, li si organizza e li si racconta geograficamente, in modo che siano ben ancorati alla fisicità dei luoghi. E’ un lavoro che stiamo proponendo nell’alternanza scuola-lavoro e che sembra interessare molto i liceali. Il nuovo Genio Pontieri.

Lunedì, 20 Marzo 2017 00:00

Ogni giorno è la Giornata del Paesaggio

Ogni giorno è la Giornata del Paesaggio

Il 14 marzo è stato festeggiato il Paesaggio, con tante iniziative, ma in particolare premiando a Roma chi ha progettato e chi ha gestito le iniziative più interessanti degli ultimi anni, quasi sempre a basso costo e alta partecipazione. Gente che costituisce una risorsa straordinaria, diffusa e inaspettata, che si dovrebbe evitare di disperdere.

La tenacia di Ilaria Borletti e del manipolo del Mibact che si occupa di paesaggio ha prodotto, contro ogni corrente, un appuntamento interessante. La Giornata del Paesaggio, istituita quest’anno e celebrata in tutta Italia con 140 eventi, a testimonianza della vitalità delle Soprintendenze e del territorio, è stata segnata a Roma da gente allegra e da un piglio operativo che promette bene.

Si legge un messaggio di Mattarella che vale quelli di Francesco: dice cose che tutti dovremmo sapere, ma facciamo finta che siano novità.

Un paesaggio non più inteso come l’elenco di beni da preservare, ma esito di un processo creativo continuo, di adattamento e trasformazione dei territori, nelle campagne come nelle città…occorre diffondere una concezione del paesaggio come bene essenziale e valore non solo culturale ma civile ed economico, in grado di influenzare la qualità della vita individuale e il benessere sociale…..per tutelare e promuovere il paesaggio quale bene comune è necessario ripartire da una puntuale azione di programmazione delle politiche e delle scelte di gestione, basata sull’interazione tra Stato e livelli territoriali e su una attenta capacità di ascolto delle comunità locali. Proprio le tragiche vicende legate all’emergenza sismica dei mesi scorsi suggeriscono di ripartire dai luoghi, anche quelli più colpiti, per ridare loro nuova forma e vigore con l’attiva partecipazione delle popolazioni interessate e nel rispetto delle caratteristiche ambientali e culturali del territorio.

Il messaggio scavalca l’universo politico e burocratico, di quelli che “il paesaggio non si mangia” e di quelli che “a me interessa conservare il paesaggio d’eccellenza” e “i muri antichi vanno ricostruiti, doveste metterci 20 anni” e atterra sulla platea di quelli che “il paesaggio siamo noi che ci diamo da fare per un senso del bene condiviso e durevole”.

Al centro della Giornata il Premio del Paesaggio italiano, assegnato per la prima volta a chi è stato selezionato come candidatura italiana al Premio europeo, che il Consiglio d’Europa assegna ogni due anni ed è giunto ormai alla quinta edizione. E’ una buona pratica che distingue l’Italia: siamo gli unici a selezionare i candidati al Premio con un bando pubblico, il più possibile pubblicizzato, che raccoglie ogni anno 50-100 partecipazioni. Mentre gli altri paesi hanno svolto una procedura di selezione interna, non trasparente e poco pubblicizzata, in Italia si sono mobilitati in 10 anni oltre 300 enti tra pubblici o privati, sollecitati a esporre in una vetrina importante interventi che rispondono ai criteri europei: non solo qualificazione fisica di luoghi, ma anche sensibilizzazione, formazione, promozione della dimensione territoriale dei diritti umani e della democrazia.

Oggi si può tracciare un primo bilancio dei trend che le selezioni italiane al Premio hanno saputo sostenere, quasi delineando uno “stile”, un approccio innovativo al paesaggio come sistema di relazioni socioculturali, con molta partecipazione e ridotti interventi fisici, impegnato ma leggero, privo di ogni paludamento.

Sono stati candidati progetti integrati, di lunga lena e di costo basso, fatti di scoperte di risorse perdute e invenzioni continue, come il Parco dei Paduli, nell’ultimo Salento (2015), o di iniziative di rilancio di aziende agricole sequestrate alla mafia, come quella della Cooperativa di Libera nel corleonese (2013). Sono scelte che hanno positivamente stupito la commissione del Premio europeo, dove si è sempre selezionato il candidato italiano ai primi posti, e soprattutto si è evidenziata la specificità del contributo italiano al Premio: dedicato al riscatto di territori periferici e risorse sottoutilizzate, culturalmente e politicamente impegnato, potente in crescendo, nel medio lungo periodo.

Le scelte di quest’anno non deludono le aspettative: il Premio è assegnato ad Agri Gentium, un programma complesso di attività che vivificano la Valle dei Templi di Agrigento, coordinate da Parello, direttore del Parco archeologico, con cui collaborano numerosissimi altri soggetti. Intorno al tema centrale dell’archeologia, declinato come motore di partecipazione e di formazione (con il coinvolgimento delle scuole, di cantieri sperimentali etc.) ruotano iniziative di valorizzazione delle aree rurali (dal FAI che ha recuperato i “giardini” di Kolymbethra, agli orti sociali assegnati in concessione su parti demaniali non impegnate nei cantieri archeologici) e di altre pratiche sociali che collegano il Parco archeologico alla città, superando decenni di antagonismo e di polemiche tra gli enti.

Anche le menzioni speciali sono all’altezza: Step (Scuola per il governo del territorio e del paesaggio della Provincia di Trento) viene segnalata per la strategia decennale di accompagnamento del Piano urbanistico provinciale, a cui la Scuola stessa è dedicata, che ha portato i temi del paesaggio e della gestione territoriale sui banchi di tutti gli studenti e sui tecnigrafi di tutti i tecnici della Provincia, con un lavoro di grande innovazione anche dal punto di vista metodologico e didattico (come ad esempio la promozione di un Premio del paesaggio delle Alpi che ha visto lo scorso autunno 80 partecipanti e la vittoria in uno dei settori, guarda caso, di Ostana).

Per il Parco nord Milano una sorta di premio alla carriera: un’operazione di recupero ambientale che dura da più di 40 anni condotta da sei comuni riuniti per bonificare e mettere a verde gli scampoli liberi e liberati della periferia industriale metropolitana (a partire da un’area dismessa della Breda), oggi ormai diventati bosco e laghi planiziali.

Infine un riconoscimento a Ostana, un comune dell’alta Valle Po, che un sindaco testardo ha riscosso dal declino e dall’abbandono riportando in vent’anni nuovi nati e attività nelle frazioni ormai deserte, oggi in gran parte recuperate da una nuova comunità di “ritornanti” e di nuovi abitanti, che scelgono consapevolmente quei luoghi e quindi intervengono sugli edifici e lo spazio comune con modalità contemporanee ma sobrie e rispettose dei caratteri tradizionali.

Inoltre dei quasi cento partecipanti sono stati segnalati per aspetti tematici altri 14 progetti, per la lotta all’abusivismo, gli esperimenti di relazione tra paesaggio e arte contemporanea, gli effetti ambientali connessi a quelli del paesaggio culturale, il contributo alla sostenibilità dello sviluppo locale e di nuovi modelli di gestione di imprese di interesse comune.

Insomma il 14 marzo si è tratteggiato un quadro intensamente propositivo, che rileva realtà diffuse sul territorio, meritevoli di una sorta di premio alla buona volontà, alla tenuta “ostinata e contraria” dei progetti in tempi difficili. Nella mattinata, in un paio di tavoli tecnici, abbiamo sottolineato sia le potenzialità del Premio in quanto osservatorio delle capacità diffuse sul territorio, sia il clima sereno e forte che si respira tra soggetti operativi, tra gente che è riuscita a realizzare, almeno in parte, un disegno di utilità collettiva. Ma abbiamo anche evidenziato l’occasione unica, irrinunciabile, la responsabilità di chi ha ruoli centrali di mettere in circolazione queste intelligenze e queste volontà, di favorire le reti, le sinergie gestionali tra soggetti periferici, di alleviare il loro isolamento, la fatica di fare tutte le parti in commedia. E’ lo stesso monito che ha concluso la Conferenza nazionale dei siti Unesco, dello scorso novembre (dove molti dei partecipanti erano presenti anche al Premio del Paesaggio, a cominciare dal vincitore, il Parco di Agrigento, che gestisce lodevolmente anche il sito Unesco), dove la domanda è stata di far circolare le buone pratiche, di superare le burocrazie alla luce delle situazioni reali, di potenziare i rapporti con gli operatori del territorio.

Dal territorio abbiamo ormai diffuse dimostrazioni di uno stile di intervento e di presenza che coniuga resilienza a innovazione, capacità gestionale e progettualità per il paesaggio, ma passata la Giornata del paesaggio ci dimenticheremo di loro, destinando briciole sempre più piccole di bilancio pubblico locale o centrale, attenzione sempre minore sui media, capacità relazionale sempre più scarsa. E’ ora di fare una mappa, di mettere a disposizione una segreteria che favorisca gli interscambi, di rendere pubblicamente merito a quelli che ogni giorno è il Giorno del paesaggio.

Venerdì, 20 Gennaio 2017 00:00

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Martedì, 10 Gennaio 2017 00:00

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Martedì, 10 Gennaio 2017 00:00

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Martedì, 20 Dicembre 2016 00:00

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