Gli obiettivi, lo statuto, il manifesto
Chi coordina, chi collabora, chi valuta e appoggia
Le attività per promuovere Atlas e Documents: interventi, mostre, convegni
Le reti e le iniziative di collaborazione. Le convenzioni, i partenariati, gli accordi di ricerca
Landscapefor documents: materiali utili per le iniziative e le riflessioni sul paesaggio attivo
(Paesaggio Carnia)
Paolo Castelnovi per il Giornale delle fondazioni - Aprile 2018
Il Paesaggio alla Camera di Commercio
Un segnale: il convegno più interessante sul paesaggio è organizzato dalla Camera di Commercio di Udine. Forse sta succedendo qualcosa ai bordi, anche se lo stagno al centro sembra immobile.
Future Forum è un appuntamento annuale che da cinque anni la Camera di Commercio di Udine destina all’esplorazione degli ambienti sociali e culturali dove crescono le idee e le innovazioni nelle produzioni e nei servizi. Quest’anno, in diversi appuntamenti sparsi per il Friuli, oltre 70 interventi di interesse nazionale hanno declinato il tema “Economie della bellezza”. Un tipico tema da Camera di Commercio, che ovviamente ha concluso col botto, con un convegno di due giorni dal titolo: Paesaggio come economia civile, a Tolmezzo e Forni di sopra, il 12 e 13 aprile. Come si vede, un altro slogan classico delle Camere di Commercio. Il Mibact, bontà sua, ha ammesso l’intero appuntamento tra le manifestazioni dell’Anno europeo del Patrimonio.
A Roma si deve baccagliare per avere un rappresentante del mondo produttivo alle Giornate nazionali del paesaggio, a Tolmezzo la Camera di Commercio chiama la responsabile del paesaggio per il Consiglio d’Europa, la presidenza di LegaAmbiente, una decina di personaggi tra imprenditori, studiosi e tecnici e questi vengono in mezzo alle Alpi carniche e per 12 ore discutono senza retorica di pratiche e di tendenze dell’operare attraverso, con, per il paesaggio.
Già questo basta a fare qualche considerazione su chi fa che cosa in questo mondo a rovescio, ma occorre entrare nel merito.
Infatti, ovviamente, non è tutto un idillio sognante: gli operatori continuano a chiedere sburocratizzazione e concretezza e gli studiosi continuano a parlare di scenari e strategie. Siamo ancora distanti, ma intanto sia gli uni che gli altri si riconoscono come interlocutori, ciascun conferenziere conferisce davvero il suo materiale di esperienza, di pensiero, di esigenze ad tavolo dove tutti possono lavorare. Anche se i materiali per ora restano sul tavolo separati, privi di una progettualità che li metta a fattor comune.
Salta agli occhi che manca la Politica, il soggetto storicamente deputato a mettere insieme i pezzi che servono allo sviluppo del territorio. Ma non è un caso che in questo convegno i politici fossero relegati ai saluti. E’ un ruolo marginale che non credo sia dovuto al turbine elettorale (che ancora dura in Friuli, dove si elegge il governatore il 29 aprile). La Regione Friuli ha approvato due settimane fa il proprio Piano paesaggistico: avrebbe dovuto essere quell’evento al centro del dibattito. Al contrario, si è preferito non parlarne, neppure citarlo: è appena nato ed è già stato relegato tra gli oggetti inutili.
Sta crescendo un’impazienza della pochezza e dei ritardi delle istituzioni, un’insofferenza della loro inefficienza e dell’inerzia a fronte dei cambiamenti epocali che ci stanno sconquassando. Tra chi è abituato a darsi da fare s’è ormai consolidata una delusione, quasi un timore a investire la politica e gli enti della risoluzione di un problema operativo, di gestione del territorio: si dà per scontato che dopo anni e faticosi compromessi si otterrà un’azione poco utile, che chiuderà la porta della stalla a vacche scappate, oppure che aumenterà molto la complicazione per poco risultato.
Se questa sfiducia diventa tendenza si prospetta una fase operativamente difficile, come quella delle coppie che litigano e ciascuno si trova separato in casa. Tutto diventa più difficile, ma l’orgoglio impone a ciascuno di cercare una via per tirare avanti anche senza l’altro, anche se uno non sa dove sono le calze pesanti e l’altro non ha idea di come sistemare l’antenna.
Così operatori senza istituzioni cominciano a muoversi a tentoni su temi come il territorio o il paesaggio. E’ lo specchio rovesciato di quanto abbiamo detto e ripetuto da vent’anni: che le istituzioni senza operatori si muovevano a tentoni sul territorio e sul paesaggio, potendo al massimo redigere solo regole e proclami, scivolando lungo una china che porta comunque alle grida manzoniane.
Ma anche nella disarticolazione dei contributi a Tolmezzo alcuni aspetti notevoli sono emersi: sostanza viva per il tema della gestione del paesaggio, che sempre più pare di difficile approccio, man mano che si approvano i piani paesaggistici regionali e si vede che il sogno di una loro effettiva utilità operativa va in frantumi.
Intanto la regia del convegno (curata da Mecenate 90) ha messo argutamente di fronte teste, esperienze, linee di pensiero diversissime, che parevano scelte sulla base di un unico criterio: non attengono direttamente al paesaggio, ma lo tengono tra gli ingredienti fondamentali delle loro strategie, riguardanti per lo più altri aspetti.
Così i contributi portati al tavolo di Tolmezzo: la sperimentazione della scuola primaria che si occupa di agricoltura, l’organizzazione del consorzio industriale policentrico, ma anche il rapper che ambienta i suoi video tra le montagne, la fondazione bancaria che dedica parte degli investimenti a progetti locali uniti dalla qualificazione ambientale e di prodotto.
Per lo sviluppo economico: poca economia monetaria, pochissima richiesta di fondi pubblici e tanti progetti di vita, programmi a lungo termine senza tornaconto immediato. Per la montagna: poca domanda becera di sfruttamento turistico diretto e tanta consapevolezza di una necessaria riorganizzazione territoriale, che superi lo sconforto delle dinamiche di abbandono ormai allo stadio terminale.
L’asprezza dell’abbandono del territorio obbliga a pensare alle persone prima delle cose, alla necessità di avere nuovi sguardi e nuove mani perché le vecchie pietre, ormai prive del significato che hanno avuto per secoli, tornino ad essere Patrimonio.
Quando si è disseccata la relazione tra comunità e territorio, si deve investire sulle persone, prima ancora che sul territorio. Questa è la lezione che dal Paesaggio viene a chi deve orientare il proprio progetto strategico, e sa che questa mossa è decisiva: intercettare e se possibile indirizzare lo sguardo che avrà il nuovo abitante, il nuovo visitatore.
Poco si sa di lui, perché abbiamo capito che la scelta dipende da valori soggettivi, da storie di vita diverse le une dalle altre. Ma qualcosa possiamo dire: il nuovo utilizzatore della montagna è certamente un cittadino, viene da queste parti per scelta (anche se spesso spinto dalla carenza di alternative urbane gradevoli). Ha esigenze di servizi, di relazioni, di consumi urbani, ma tra queste ci saranno esigenze etiche e culturali che trovano nella montagna un riscontro difficile da trovare in città: sostenibilità complessiva del rapporto con il contesto, qualità della vita piuttosto che profitto, comprensione socioculturale dei progetti lunghi. In montagna è ovvio che gli interventi reggono se la natura e la società sono d’accordo, in città nessuno si accorge se la tua impronta annichilisce l’intorno. In montagna un comportamento sobrio e non consumistico è virtuoso e facilita la serenità, in città è povertà di cui vergognarsi. In montagna è dato per scontato che uno si impegni per una vita, in città ormai ogni anno si batte una moneta diversa.
La montagna ospiterà i progetti di chi è deluso dalla città, e la relazione ritrovata tra quelle persone e il mondo che li circonda si chiama Paesaggio. Ma non è il Paesaggio a cui siamo abituati, che si pone come qualcosa da guardare, è Paesaggio Attivo, che si nutre di progetti ed energie operative per vivere.
Per questo occorre immergersi nel formicolio delle scelte biografiche e delle imprese personali degli uomini (e le donne) di buona volontà per capire dove raccogliere la nuova materia prima del paesaggio. E le Camere di commercio oggi si predispongono ad essere più vicine delle Regioni e dello Stato agli uomini (e le donne) di buona volontà.
(Scuola di Anversa, 1590 circa, Poggio a Caiano)
Paolo Castelnovi per il Giornale delle fondazioni - Marzo 2018
Le 4 C della cultura che ci serve: critica, cooperazione, conservazione, cucina
Nella cultura personale la sequenza di critica, cooperazione, conservazione è naturale. Per cogliere un frutto sinergico di queste fasi della cultura occorre lavorare insieme, come in una cucina.
Il 68 mi ha colto maturo. Mi avevano maturato l’anno prima, con un interrogatorio di tre ore su nove materie complesse: un rito di iniziazione alla borghesia italiana tipo l’uomo chiamato cavallo appeso per i Sioux. La nostra generazione era stata maturata da professori maturi che si erano laureati e avevano insegnato negli anni del fascismo, e avevano trovato il modo di continuare la loro missione educatrice nell’Italia repubblicana.
Quell’armatura culturale straordinaria e indimenticabile ci consentì di affrontare senza esitazione il pasticcio sociopolitico in cui ci avevano cacciato le contraddizioni del dopoguerra. L’abilità ad apprendere consentiva di non spaurirsi tenendo insieme Adorno e i Grundrisse marxiani con gli ormoni che urlavano nella mutanda, di leggere (tutta!) la Ricerca del tempo perduto su una spiaggia, di amarsi andando a vedere i film di Petri e di Bellocchio.
Fu proprio quella formazione culturale, con quell’ingombrante impronta ancora fascista, a spingerci a fare ciò che andava fatto: la critica. Critica di uno stato giovane e forte, progettato con uno sforzo potente dalla generazione dei liberatori, che vent’anni dopo la Costituzione era ancora la classe dirigente ma faticava ad applicarla. Era una critica disordinata e inconcludente, facilmente tenuta ai margini delle scelte sociopolitiche maggiori, ma centrata e incisiva sul piano culturale, della struttura del pensiero comune e dei costumi. Quel pensiero e quei costumi che la borghesia poco aveva modificato negli ultimi 50 anni: l’ideologia della famiglia, il ruolo della donna, l’ascensore socioculturale, il classismo nei comportamenti.
Dieci anni dopo e per trent’anni ancora la cultura, addestrata nelle mille assemblee e nell’ascolto appassionato dei ragionamenti di tutti, ci ha dato gli strumenti per la ricerca collettiva, quel lavorare insieme sui temi che sembravano importanti. Ci sembrava (confusamente) di applicare quel che ci aveva colpito dei racconti della leva dei nostri genitori, dei brevi anni da partigiani o da ricostruttori che li avevano impegnati al vivo, in strani e appassionati aggregati di volontariato, prima di farsi travolgere del privato e dal quotidiano. Di nuovo è stata la cultura, maturata sugli studi e addestrata dalla critica, a fornirci criterio e metodo per lavorare insieme. Per 40 anni abbiamo cercato e spesso trovato compagni di strada per il bene comune, Abbiamo fatto i nostri mestieri di servizio per la società, dove la cultura ci ha aiutato a rimanere per quanto possibile senza pregiudizi e senza rancori, a far politica nel nostro lavoro, invisibili ai partiti ma, forse proprio per questo, con un ordine dei valori indiscutibile.
Ora quel che è fatto è fatto, e la nostra cultura è ormai impregnata da quel che abbiamo fatto. Ci sembra di averlo fatto al meglio. Perciò ci insulta il pensiero di buttarlo via. Subito reagiamo: buttare in nome di che cosa?
E’ vero però che in quel lavoro socioculturale abbiamo allevato la generazione che oggi critica: sono i nostri figli ad essere a disagio, e siamo noi ad avergli fornito gli strumenti culturali per superarci.
Guarda, non lo dico per quello che ho fatto io, ma questo che siamo è il prodotto di migliaia di persone colte, che ci hanno messo l’anima… Son progetti lunghi, che danno frutti dopo decine d’anni… Non è che per qualche centinaio di corrotti, per lo più cialtroni senza cultura, puoi buttare il lavoro di una generazione intera…
No, non mi puoi dire che è come nel ’68, come noi che contestavamo i nostri padri partigiani e rifondatori. Non c’è paragone: questi sono senza cultura… non hanno idea… e poi sanno solo criticare…voglio vederli adesso, con tutti i problemi europei e mondiali che ci sono…
Guarda…quando hai tempo qualche ora ti spiego perché le tue idee non sono realistiche… vedi su questo abbiamo già provato nel ’70 ma non ha funzionato… e su quello avresti dovuto vedere: ci abbiamo messo due anni, avevamo coinvolto duemila persone, ma al momento di fare ne erano rimaste venti… No… non è che non ci credo perché non ci sono riuscito, è che culturalmente è debole: la gente non ti seguirebbe…
No, non sono diventato conservatore…e poi: perché no…se le cose fatte sono buone perché non conservarle? Non dico di tenerle come sono, ma con qualche aggiustamento… i difetti ci sono ma si possono rimediare…
Hai ragione con le tue idee, ma non puoi prescindere dalle condizioni culturali…cinquant’anni fa era giusto criticare, poi ho lavorato con gli altri per superare ciò che criticavo, e ora mi pare giusto conservare ciò che di buono ha prodotto il nostro lavoro: è una cultura che non va persa, anche se tu la critichi…
Ma certo, non è che tutto quello che viene proposto di nuovo sia da buttare via, ma così è senza cultura: non ci hanno lavorato, sono invenzioni che non funzioneranno… rischiamo di buttare via quel poco che abbiamo per degli esperimenti infondati…
Insomma: se oggi è naturale che la generazione del 68 sia conservatrice, è importante riconoscere i meriti di ciascuna delle fasi culturali che hanno distinto quelle biografie. Non sono mutati i valori di riferimento, è mutata la posizione tra gli attori, in un sistema di eterni ritorni tra critica, cooperazione, conservazione.
Come nella doppia spirale del DNA, ogni mezzo giro i critici, spinti dai cooperatori, si trovano di fronte i conservatori (che mezzo giro prima erano cooperatori e un giro prima erano critici). Mezzo giro dopo i critici diventano cooperatori che, tra l’altro, formano i critici di domani.
Ma come nel DNA, l’energia vitale si sprigiona nelle relazioni tra le due semispirali che si confrontano: il nostro patrimonio informativo non sta nelle sostanze che formano le spirali, ma nelle relazioni sempre diverse tra quelle sostanze sempre uguali. Così tra critica, cooperazione, conservazione: ciascuna azione, in ciascuna fase non sortisce alcun effetto culturale di lungo periodo. L’effetto deriva dal complesso delle relazioni tra tutte le parti, purché siano organizzate.
Se la critica (o la cooperazione, o la conservazione) valeva nel 68 può valere oggi, mutatae mutandis, ma certo bisogna trovare una sede dove innescare il confronto tra loro, un brodo di coltura dove fare crescere i filamenti che collegano le parti.
Non si tratta di un brodo di coltura, ma di cultura semmai. Infatti è ormai evidente che è inagibile la sede classica del confronto, fin dai Greci: il dibattito politico. In quel campo si sono avvelenati i pozzi: la competizione val più della collaborazione, le parole a far danno pesano più di quelle a far bene. Non c’è spazio per i progetti lunghi, quelli che dan frutti dopo e distante dalla pianta che hai curato, quelli che non puoi dire: son miei prodotti.
Per i progetti lunghi, quelli che contano, occorre trovare un campo dove la cultura dell’uno rispetti quella dell’altro: la critichi, ne tenga pezzi, la rimpolpi senza firmare ogni parte come propria ma la cresca come bene comune.
Troviamo un luogo di cultura adatto a questo lavoro, anonimo ed essenziale. Una cucina.
Già, perché ci vuole metodo e sapienza di cuoca. Non i cuochi narcisi che riempiono le tv, ma una bella signora terrona, che sappia arrangiare cinquestelle e democratici, i nuovi critici e i nuovi conservatori con grembiali e attenzione e gli insegni, a mestolate, che occorrono tre cose. Occorre ricominciare da capo con gli acquisti, per raccogliere ingredienti sani direttamente dal territorio, senza fidarsi dei venditori abituali. Occorre una disciplina da gruppo di ricerca per far mettere le mani ad altri in impasti che vorremmo sempre far solo noi. Occorre un continuo e diffuso esercizio di onestà intellettuale a riconoscere i buoni piatti sin dall’assaggio, e proseguire solo con quelli.
Tre passaggi. Contemporaneamente.
E una cuoca che sa cosa fare per dar da mangiare a tutti. Senza chiedere applausi dalla sala.
(Particolare da Nemesis, A.Durer, 1502)
Paolo Castelnovi per il Giornale delle fondazioni - Febbraio 2018
La difficile staffetta tra Paesaggio e Cultura
Si può assumere il riconoscimento del Paesaggio in un ruolo politico fondamentale, di supporto e comunicazione per le decisioni e le appartenenze politiche, un ruolo sinora riservato alla Cultura nel suo complesso, ma poco praticato? Forse sì. Ma a patto che tale ruolo per il Paesaggio sia riconosciuto dalla macchina istituzionale stessa, e venga liberato da una rappresentazione tradizionale, che lo relega ad essere visto come uno dei mille specialismi culturali.
In attesa della Carta del Paesaggio, che va maturando nel cuore del Mibact e che verrà esposta il 14 marzo prossimo in occasione della seconda Giornata del Paesaggio, si può fare un punto sul tema del Paesaggio come aspetto finalmente considerato non marginale da chi amministra la Cultura in Italia.
Non c’è dubbio che l’assegnazione di uno dei due o tre sottosegretariati al tema del Paesaggio, e la scelta di una figura del calibro di Ilaria Borletti Buitoni per animarlo, rappresentano novità rilevanti nella strategia complessiva del Mibact.
Forse più rilevante di quanto lo stesso Ministro supponesse e di quanto risulti alle cronache, sensibili solo ad eventi e personaggi eclatanti, che invece su questo tema sono praticamente assenti, se si tolgono gli scandali ricorrenti degli sconci imperdonabili a luoghi simbolo della nostra bellezza.
Non è tutto merito (o colpa) di chi governa se di paesaggio si comincia a parlare anche fuori dal gruppetto degli addetti: è un mood che va diffondendosi, almeno tra chi ha la cultura come pane quotidiano. In cinque anni, molto raramente sotto la luce dei riflettori, il tema della qualità del paesaggio si è insinuato tra le categorie del giudizio sull’opportunità di una trasformazione, tra gli aspetti da considerare nel marketing urbano e territoriale, tra i valori da contabilizzare nei programmi di sviluppo locale.
Ma c’è di più: in questi anni il paesaggio esce dal novero dei “beni culturali” ed entra in quello dei “beni politici” dalla porta maggiore, quella dei “beni comuni”.
La paura e la rabbia delle comunità che temono per la perdita del “proprio” paesaggio diventa un motore imprevisto di resistenze locali e di progetti di vita “fuori mercato”. Gli anti TAV e le start up della green economy, le insofferenze leghiste e le mille azioni di volontariato per riabitare gli edifici e i territori abbandonati sono solo gli esempi disparati di formazioni sociopolitiche che non si spiegano senza comprendere il nuovo riconoscimento identitario assegnato ai luoghi e alle attività ad essi legate. E’ un trend controcorrente, che restituisce senso collettivo ad un sentire personale: il paesaggio condiviso è un bene comune su cui si fondano potenze di pensiero e di azione che si erano andate perdendo, in tempi di individualismo spinto.
Il senso del Paesaggio è percepire come propria una forma consolidata dell’abitare, che si vive ogni giorno o è salda nella memoria e permette di pensarsi dentro una storia lunga, in una cornice che dà dignità ai propri progetti e al proprio sentire. Il senso del Paesaggio ci configura come parte di un insieme che ci dà forza e fiducia, e ci permette di offrire i luoghi e le attività ai forestieri (che siano turisti o migranti) come forma di generosa ospitalità e apertura a una collaborazione per cogliere le opportunità di una migliore qualità globale. Questo ci rende attraenti e benvisti.
Ma questa potenza, questo appartenere a una storia lunga e a comunità con-senzienti, non è quello che dovrebbe indurre la Cultura nel suo insieme? Non è il suo ruolo politico? Non è quello che dovremmo imparare assieme al latte materno e poi via via crescendo per pastasciutte, canzoni, artisti, chiese, castelli e piazze e marine e vigneti?
Certo, viene da dire, abitiamo un paese fortunato, che ad ogni passo racconta di sé in modo splendido e affascinante. Certo da queste parti la Cultura, che viene dal territorio, è politica a partire dal fatto stesso di abitare. E’ ovvio: siamo gente che chiama Comune il posto dove sta… se non è cultura politica questa….
Ma allora come mai la macchina istituzionale della Cultura è così distante? Come mai contestiamo da decenni la scuola, spendiamo per fare musei che nessuno frequenta, trascuriamo o maltrattiamo il patrimonio diffuso?
Azzardo una spiegazione: la macchina istituzionale della Cultura si è data, oltre 100 anni fa un compito prevalente e condiviso di tutela e comunicazione di un pacchetto di valori culturali. Da allora chi governa ha ampliato un po’ il pacchetto, in relazione all’emergere di nuovi criteri di valore, ma non ha cambiato la strumentazione comunicativa. La Cultura si è imbozzolata nei suoi stessi media comunicativi (la lezione scolastica, la biblioteca, il museo, il teatro…) e, dato che il medium è il messaggio, come ci rivela McLuhan, ora ci appare arretrata e si presenta come esoscheletro resiliente a ogni innovazione e non come organismo propulsivo.
Al contrario il Paesaggio è difficile da inscatolare in una macchina comunicativa ma si comunica per endovena, va diretto nel sangue del sapere primario, si regala alle emozioni. Il Paesaggio è patrimonio comune non perché lo si insegni ma perché è il luogo di riferimento di intere comunità e di un mondo di visitatori innamorati. Quello che andrebbe insegnato, perché manca, è il riconoscimento esplicito del valore per la nostra vita che hanno i luoghi identitari e le attività che contengono. Dovremmo renderci conto che il Paesaggio riconosciuto come bene comune è Cultura, anzi oggi è forse il medium culturale politicamente più efficace, quello che influisce più direttamente sulle nostre scelte.
Allora, mentre si avvia il faticoso lavoro di rinnovo della comunicazione della Cultura complessiva, che occuperà i prossimi lustri, perché non far carico esplicitamente al Paesaggio di rappresentare i nostri valori di riferimento, di diventare il luogo della discussione civile? Insomma perché non assegnare al Paesaggio il ruolo di medium comunicativo principale della Cultura per la Politica?
Forse sta già accadendo un fenomeno del genere, ma in modo contradditorio e quasi clandestino. Sembra che il Mibact stia assegnando un posto importante al Paesaggio, ma quasi a sua insaputa.
La Carta del paesaggio, che certamente proporrà strategie operative a partire da una riflessione analoga a quella qui tentata, non è stata materia di compagna elettorale, ma è rimasta nascosta e comparirà dieci giorni dopo le elezioni. Queste potranno modificare completamente l’assetto del governo del Paese, e la Carta rischia di essere relegata nel cassetto dei buoni propositi. Sembra un caso, ma forse non lo è. Certo che al Mibact ogni volta che si presenta il Paesaggio in un ruolo nuovo, subito lo si nasconde con le solite vecchie modalità: ad esempio si premiano nella Giornata del paesaggio le iniziative più radicate, con peso politico innovativo sul territorio, e si riempie la Giornata stessa con 100 attività delle Soprintendenze, ben pubblicizzate e diffuse, che fanno vedere il Paesaggio nell’Arte, riportandolo nei musei e negli archivi.
Un altro esempio eloquente: il novembre scorso Borletti Buitoni ha convocato a Roma gli Stati generali del Paesaggio, sforzo titanico di mostrare le relazioni politiche e tecniche che il tema provoca nella gestione del territorio e della cosa pubblica. Si distribuiva in quell’occasione un importante e sinottico Rapporto sullo stato delle politiche del paesaggio, altro sforzo titanico di presentazione documentata e commentata di una grande complessità operativa.
Il Rapporto, di quasi 500 fittissime pagine, per economia smart era distribuito su chiavetta usb. Ovviamente pochi lo avranno aperto, ancor meno lo avranno letto. D’altra parte sul web il Rapporto c’è ma non si fa trovare: come tanti tesori del Mibact è nascosto nella rete profonda
(https://box.beniculturali.it/index.php/s/zWcOENcfGq6vX1f#pdfviewer ).
Ma se si apre il Rapporto e lo si va a cercare, nascosto tra tabelle e presentazioni, si trova un bell’articolo di Franco Farinelli, in quanto membro dell’Osservatorio nazionale per la qualità del Paesaggio, che conclude come meglio non si può:
Resta la certezza (…) che soltanto dalla preliminare adesione ad un generale e consapevole modello del mondo può discendere una scelta politica che sia, se non sempre praticabile, almeno plausibile: vale a dire potenzialmente condivisibile dalla collettività. Come dire infine che è proprio in funzione dell’esito delle questioni riferibili al paesaggio e ai suoi assetti che si decideranno non soltanto le prossime politiche, ma prima ancora la prossima forma della Politica.
Forse Franceschini non lo conosce neppure, ma certo gli va il merito di aver dato spazio a questo tema, a questa gente, a questa prospettiva, sulla quale lavorare tutti, finalmente consapevoli, che ci sia il sole o piova e tiri vento.
(Claude Monet - La Gazza)
Paolo Castelnovi per il Giornale delle fondazioni - Gennaio 2018
Paesaggio elettorale
Paesaggio come terapia per orientarsi in tempo di votazioni.
Democrazia, sull’orlo di una crisi di nervi, si alza quasi su un gomito per la concitazione e gesticola nell’aria sperando di farsi capire dal signore barbuto e composto, seduto appena dietro la sua testa: “…che poi già mi pareva strana questa storia che uno fa il padrone per cinque anni, perché me mi si chiama solo alla fine. Io servo per giudicare, dicono, se ha fatto bene o se ha fatto male. Questo è il mio ruolo fondamentale, dicono, guai se non ci fosse un redde rationem ogni cinque anni. Ma cos’è sto redde rationem? Rendimi la ragione? Perché, fino ad allora son stati liberi di sragionare? E ora noi arriviamo e guardiamo se han fatto i compiti? Mi sembra una presa in giro.”
Si abbatte sul lettino “Ma il peggio è venuto quando ho provato a riassumere: allora secondo voi ogni cinque anni ci mettiamo lì e discutiamo ragionevolmente su quello che è stato fatto, e poi decidiamo, tutti.” “Eh, mi dicono con un po’ di imbarazzo, ma carina, non ti accorgi che siamo sotto elezioni, ma ti sembra il momento di discutere…. di ragionare… è ovvio che non si può… Sotto elezioni è come a Carnevale: si deve fare in piazza quello che tutto il resto del tempo si può fare ma solo di nascosto. E qui si devono contar balle, si gioca a chi la spara più grossa, a chi demolisce di più quello che ha fatto l’altro… cosa vuoi discutere… si sa che ora è il delirio… tra due mesi poi, quando si giustificheranno: l’ho detto perché eravamo sotto elezioni… tutti annuendo risponderanno - certo… capisco…-”.
Si alza a sedere sul lettino e quasi grida: “ma allora, se lo sanno, perché stare a sentire due mesi di sparate vergognose? non è un redde rationem, è un gioco da bar! Ogni giorno qualche pettegolezzo, vero o falso che sia, l’importante è riderne e dimenticarlo domani, per poter ascoltare di nuovo la battuta e di nuovo ridere! E come si fa la resa dei conti se non ci ricordiamo neppure quello che è successo ieri?” Il signore barbuto fa cenno di abbassare la voce, che c’è gente in sala di attesa, e poi dice conciliante “… ne parliamo la settimana prossima, che oggi la sua ora è finita”.
Fuori, le lacrime agli occhi metà per lo smog freddo metà per il magone caldo, Democrazia si avventa per strada e alza lo sguardo dal marciapiede solo al primo semaforo. Lì, nel tempo di attesa di un verde, tra i vapori del suo fiato, guarda il Parco, dall’altra parte della strada, con i grandi alberi che mostrano le geometrie placide e maestose dei rami spogli. Strizza gli occhi ed è presa da una specie di vertigine, come un precipitare di pensieri depositati in una soffitta che le piovono addosso, seppellendo in un turbine l’arredo dei pensieri quotidiani a cui siamo abituati.
Si siede sulla prima panchina del parco, incurante del freddo, e viene presa da quei trucioli di discorsi antichi, di nonni e di amori che l’avevano incantata:
“questo è il parco dove giocavo da bambina, quel tronco a destra è dove noi si contava per giocare a nascondersi, … e la paura ad attraversarlo… ma dall’altra parte abitava lui.. là dove ci sono quelle luci, al numero 18… ora tutto sembra facile, ma prima della guerra…”
“tu vedi questo parco ma chi lo ha progettato e chi lo ha curato non l’ha visto: l’hanno fatto 100 anni fa per i loro nipoti. Loro hanno visto solo modesti arbusti: li hanno piantati a una distanza spropositata per la loro dimensione e li hanno curati settimana per settimana. Ora la distanza è quella giusta: i rami di ogni albero si sfiorano con quelli del vicino…”
“guarda le luci quasi verdi del crepuscolo, dietro gli alberi: danno un senso di infinito che si sa cogliere solo crescendo. Da piccoli tutto il mondo che si percepisce è ridotto a pochi metri… ma da grandi si riesce a rimanere sgomenti quando il cielo ti dà una profondità disumana… è allora che ci si sente veramente piccoli…”
Si è formata una sfera di calma che attutisce i rumori attorno e i pensieri ossessivi. Democrazia respira piano, è come sospesa. Da fuori non si vede ma è ipnotizzata da ciò che le accade dentro. Si è sciolto quel groppo allo stomaco e nella mente, finalmente sgombra dopo tanto agitarsi, si srotola come un tappeto una sensazione di chiarezza, che tutto si ordina naturalmente e senza fatica, con ciò che è importante prima di ciò che non lo è.
Tentando di spiegare questa nuova lucidità, Democrazia dirà: “E’ un senso dentro, dove le parole non servono a nulla. Ma non ci sono che quelle per comunicare, e quindi ci provo.
Quando siamo presi dai riti e dalle foghe del quotidiano rimandiamo, quasi senza accorgercene, il giudizio profondo su quel che ci accade. Lasciamo lì a mitonare un senso confuso di inadeguatezza del presente rispetto a ciò che abbiamo desiderato per il nostro futuro. Solo i poveri di spirito a sedici anni hanno desiderato soldi o fama: noi abbiamo desiderato di essere pieni di amore e felicità, non per noi soli ma per tutti. Allora abbiamo avuto qualche volta la sensazione effettiva, fisica di questo sentimento panico, generale. E’ quel momento in cui ti sembra naturale e non da deficienti che un film si intitoli Tutti insieme appassionatamente e che grandi e bambini se la cavino cantando alle porte della guerra. E l’abbiamo avuto tutti, è inutile far finta di niente adesso. Quell’orgasmo poi viene eroso dalla banalità del quotidiano, ma resta un languore di fondo, un senso di delusione del presente.
E quando si ricordano di me, mi chiamano Democrazia e mi dicono - siamo al momento del giudizio, dai! scegli chi comanderà per i prossimi anni! - quel languore di fondo diventa un’incazzatura violenta. Mi rivolto contro chi ritiene ovvio affidarsi alla pancia o al tornaconto, e mi vengono a galla, a brandelli, disordinatamente, quei sensi incistati, nascosti: ansie di qualità e di bellezza che mi farebbero stare bene. Ma non sono più allenata, sono stordita dal baccano della sciatteria ordinaria: avrei bisogno di un bagno termale, di una palestra dove rifarmi il muscolo del desiderio di felicità.
Ecco, è qui che entra in gioco il paesaggio: il paesaggio è la palestra ideale per questo esercizio. Trenta minuti di paesaggio al giorno toglierebbe il ciarpame politico di torno. Ma se no almeno una volta alla settimana, se no almeno un giorno al mese, ma comunque bisogna sapersi rifugiare nel paesaggio prima di ogni decisione strategica.
E’ un luogo sicuro, l’ambasciata di un paese in pace dove si può impedire di entrare alla puzza di marcio, al massacro del quotidiano, della piccineria, del tornaconto di lobby. E se alleniamo il muscolo della felicità ci porta svelto alle scelte che tengono nel tempo, che vogliano ci siano per i figli, che ci sostengono per uscire dalla brutalità di animale con lo smartphone.
La resa dei conti a cui fa riferimento il redde rationem elettorale non è uno scarabocchio commerciale sulla carta del formaggio, ma un referto sulla capacità dello sguardo di vedere ancora gli alberi, attraverso quelli il bambino che ci giocava, l’impegno del giardiniere che li ha piantati e, dietro ancora, il cielo che strugge. Chi non sa rendicontare questo sguardo e non sa curare che tutti l’abbiano come bene prezioso, non avrà il mio voto.”
Democrazia, per la prima volta da molti giorni, accenna a un sorriso. Deciso.
(Grande Muraglia)
Paolo Castelnovi per il Giornale delle fondazioni - Dicembre 2017
Pisciare sull’angolo è fare paesaggio
Molti degli eventi recenti sono più comprensibili se riconosciamo il senso del paesaggio che suscitano: un codice comprensibile da tutti che affonda le proprie radici in un passato profondo e inquietante.
Il cane portato la sera a fare il suo giro e Trump che apre l’ambasciata USA a Gerusalemme usano lo stesso codice comunicativo. Infatti l’ambiente mediatico comune a questi comportamenti è sempre lo stesso: il paesaggio, cioè il senso che viene assegnato ai segni sul territorio. Si usa un codice transculturale, o meglio è un sistema di segni che si ritrova in ogni cultura e che, utilizzato in questo modo, riporta al significato archetipico della bandiera: segnalare il possesso del territorio.
I segni del dominio del territorio sono come grida fuori dalle righe in una rappresentazione dell’identità. Oggi sono una caricatura grottesca di comportamenti antichi e desueti, che ricorre ad un linguaggio archetipo che capiscono tutti: il confine (Romolo e Remo), i simboli che svettano (il pennone sula torre più alta), il sangue versato ritualmente (la decapitazione del Re).
Si risvegliano fantasmi dormienti nella modernità, che non sentiva la mancanza di una sottolineatura dei contorni identitari: queste urla ci vengono a dire che noi moderni siamo spaesati a casa nostra perché abbiamo troppo pochi reticolati, troppe lingue e sangue meticciato, troppi usi e costumi uniformati, troppi non-luoghi.
Come nelle discussioni convincenti non c’è bisogno di alzare la voce, abbiamo sempre pensato che una società sana è identitaria anche senza muri, razzismi e culto delle tradizioni.
Quando ci si mette a gridare, quando si fanno danze bellicose per definire linee di confine e indipendenza di comportamenti, vuol dire che siamo a disagio, che non ci sentiamo padroni della situazione. Sino a un anno fa avrei scritto: guardate Barcellona…una città del mondo, che vive e mantiene la sua diversità culturale immersa in una rete salvifica di rapporti internazionali, che le consentono di fottersene dei rapporti con Madrid. Oggi, sbalordito, guardo gli esiti tristi di una litigata a freddo, in cui si sono alzate alte grida, e dove i segni di possesso del territorio da una danza di toreador (le manifestazioni che alternativamente riempiono le piazze, le scuole dove la milizia che entra per impedire il voto non riesce più ad uscire per la folla alle porte) si sono tramutati in pochade (la fuga in auto dei capi, che ricorda vergognosamente quella del nostro reuccio il 9 settembre 1943): segni geografici che hanno seppellito nell’immaginario collettivo ogni dignità dell’impresa politica separatista.
Quella dei segni è un’arte complessa, di cui bisogna tener conto, come sempre nella comunicazione, non solo di chi emette, ma anche di chi riceve e soprattutto del medium in cui si trasmette, come insegna McLuhan.
E in molti casi di comunicazione transculturale il medium è il paesaggio: si fa capire da tutti.
Lo sanno bene i terroristi di questi anni, che uccidono persone a caso ma scelgono accuratamente il teatro del rito sacrificale: i luoghi di festa, di religione, le architetture simboliche. E’ il contrario del terrorismo degli anni di piombo, che mirava ad personam ma era indifferente al contesto. E’ altro il messaggio: allora si volevano marcare presunte colpe individuali, segnale criptico per i pochi adepti a una setta, ora si simboleggia l’esercizio di un comando tirannico, che si impone a tutti, senza volto e che non guarda in faccia.
In questa logica fredda, che agisce chirurgicamente su emozioni primarie, la morte in un luogo di festa fa più effetto che in un luogo di lavoro: forse irrazionalmente i morti appaiono più innocenti, forse insinua inquietudine dove vorremmo rimuovere ogni pensiero, forse mira a generare una rabbia di impotenza, tanto più smisurata quanto più mossa a partire da un contesto pacifico e rilassato.
E’ incredibile quanti elementi del senso del paesaggio siano presenti nella comunicazione apparentemente non codificata dei grandi fantasmi contemporanei: non solo il terrore, ma le migrazioni…la povertà.
Milioni di africani soffrono e muoiono nella loro terra; fuggono e spesso cadono in inferni peggiori di quelli che cercano di lasciare, ma si sa… hic sunt leones. Una piccola parte di queste moltitudini insegue il miraggio di luoghi pacifici e ricchi, e, tra mille rischi, arriva alla spiaggia del continente patrio e lì viene ripresa e massacrata, ma si sa… hic sunt leones. Una piccola parte di chi agonizza sulla spiaggia riesce a salire su una barca e lì, in vista dalla costa, incrocia gente predisposta a salvarlo, curarlo, ristorarlo e mantenerlo per un paio d’anni, anche se spesso di malavoglia. Certo, vorrei ben vedere…. è un dovere morale: vuoi mica abbandonare vite umane nel mare nostrum…
E’ la geografia a segnare quando scatta la pietas, è il nostro senso del paesaggio che legittima la mostruosa ipocrisia.
Dovremmo rispolverare il senso del paesaggio che ci ha lasciato la civiltà contadina da cui tutti veniamo. Lì troveremo tutti i segni che ci fanno risalire a galla pulsioni fondamentali dell’abitare che credevamo sepolte nei secoli bui: la mancanza di sicurezza, la paura dell’altro, l’inesorabilità di un futuro che, se va bene, ripeterà il presente.
Basta guardare i versanti terrazzati, i nuclei di case nei boschi di castagni o di faggio, la modestia delle reti viarie: il paesaggio rurale tradizionale è intriso di fatica, di isolamento, di infinito lavorio manutentivo. Ma, proprio per questa storia, è anche deposito patrimoniale, segno del lavoro dei padri che non è negoziabile, che costituisce l’etimo concreto del termine patria.
Quando per tre o quattro generazioni ci si riversa nelle città, dove si è accolti malamente e ributtati ai margini, nelle periferie dove non si riesce a dare forma al proprio abitare, si perde l’identità patria e si rimane culturalmente nudi, senza paesaggio da sentire come proprio. Ormai le nostre periferie sono popolate di orfani di paesaggio, di contatto con il territorio. E chi soffre di una nostalgia struggente del senso concreto dei segni lasciati sul terreno, chi ha dovuto staccare il senso di sè dai luoghi e dalle comunità, ora nutre la propria identità di simboli astratti, di bandiere senza più campanili sotto. Ed è a questa solitudine che si rivolge chi ristabilisce codici d’ordine elementari: confini, vessilli ai centri di comando, pisciate sugli angoli.
Nell’articolo Ricucire il patchwork delle identità locali, pubblicato nella sezione Doc di questo sito, si conclude descrivendo l’Italia oggi come il regno della Bella addormentata durante il sonno.
E’ certo che, ad avviare una strategia per rianimare “la Bella addormentata”. non basta una ricognizione che individui genericamente le forze potenziali per agire sulla cultura del territorio. Per smuovere la ruggine, occorre un massiccio investimento di energie, di capacità organizzative, comunicative, tecniche per rendere più fluidi i rapporti tra enti, operatori e società. Ma tutto questo, ammesso che un governo illuminato abbia la forza e il coraggio di promuoverlo, non può avere successo se prima non si è rotto l’incantesimo. Occorre un’iniezione di consapevolezza e di senso di responsabilità che intercetti i cittadini di buona volontà e li rimetta in ascolto della propria città, come si dovrebbe fare con ogni cosa amata, per capirne i bisogni e le necessità di cura. Solo così emerge il ruolo di chi sta lavorando per la città, e gli si possono chiedere prestazioni più organizzate ed efficaci.
Infatti sino ad ora il ruolo degli attori presenti sul territorio per la cultura è stato quasi irrilevante, agli occhi dei cittadini e degli amministratori, perché le loro attività sono diffuse ma frammentate, poco in rete, spesso ignote le une alle altre, trascurate o addirittura considerate un ostacolo dalle istituzioni. E anche il patrimonio culturale, materiale e immateriale, che viene curato a livello locale e che costituisce il tessuto di base del nostro stesso Paese (come abbiamo cercato di raccontare più sopra) è ormai largamente sconosciuto dagli abitanti stessi, che al più ne sanno collocare sugli assi storici e geografici gli aspetti principali, rimanendo comunque in ombra tutto l’effetto sistematico e relazionale che ha fatto la città, il suo sapere, la sua fama.
Dunque l’obbiettivo immediato è dare consapevolezza della forza culturale a disposizione delle città, nel loro patrimonio di cose e di persone, e richiamare tutti, a partire dagli operatori stessi, ad un senso di responsabilità operativo verso quel patrimonio. Si tratta di generare per la cultura urbana diffusa lo stesso processo di coinvolgimento che si è finalmente innescato per l’ambiente, dopo 50 anni di tentativi.
Occorre rendersi conto, nelle città e nelle menti dei partecipanti stessi, che sono numerosissimi quelli che stanno svolgendo un ruolo nella produzione e nella gestione del paesaggio culturale locale, che le loro attività, spesso sconosciute, possono diventare rilevanti se opportunamente messe in vetrina e organizzate in rete, utilizzando i media attualmente accreditati e le modalità più riconosciute dalle nuove generazioni.
E’ uno sforzo comunicativo complessivo che crediamo sia in grado di superare l’attuale situazione di stallo e far riconoscere, a partire da ciascuna situazione locale, le disponibilità di azione giù presenti, che costituiscono una risorsa potenziale straordinaria, probabilmente l’unica che oggi può valorizzare l’intero Paese, mettendo in primo piano la riscoperta delle sinergie del nostro patrimonio e dei nostri paesaggi urbani e territoriali.
Si tratta di uno sforzo epocale, dello stesso ordine di quello affrontato nel periodo postunitario, a cui il Touring Club diede un così importante contributo. Anche ora, in tempi di centralizzazione delle politiche, occorre dare gambe ad iniziative puntuali ma con un effetto progressivamente coprente, come quelle di allora, senza nascondersi l’enorme difficoltà di una strategia partecipativa in questi tempi settari e litigiosi.
Noi abbiamo cominciato. Con l’Associazione LandscapeFor abbiamo predisposto e messo a disposizione dei territori che intendano utilizzarlo AtlasFor.
E’ uno strumento che consente a ogni società locale di attivare il primo passaggio: far prendere consapevolezza a tutti di quanto si abbia in città o sul territorio, della complessa proprietà culturale che ad essi è assegnata dalla storia e dalle attività che tuttora si svolgono, per valorizzare i beni e per proiettare nel futuro il feeling del sapere locale sin qui accumulato.
Per questa presentazione del patrimonio locale si è scelto il format “atlante” scegliendolo tra gli altri tipi di elenco di beni e di attività (la guida, l’enciclopedia, la sedimentazione storica etc.), proprio per incentivare la riscoperta dei luoghi, delle relazioni di prossimità tra beni e attività, per favorire le emozioni della serendipity, l’incontro casuale di cose e persone che non si conoscono in una città che crediamo di conoscere.
AtlasFor è una web-app open-source, che rende disponibile una piattaforma online con accesso diretto dal sito www.landscapefor.eu, dove su mappe sono localizzati i punti di interesse (POI) riguardanti il patrimonio e le attività culturali e si aprono dossier che li illustrano, usando prevalentemente immagini.
È portabile su smartphone e su tablet e consente quindi di visitare la città e il territorio avendo come appoggio la documentazione di AtlasFor.
Per popolare AtlasFor è stato redatto un progetto editoriale che si svolge con modalità e strumentazioni che fanno fronte operativamente a tutti gli aspetti critici della situazione che abbiamo evidenziato in premessa. Il progetto editoriale s’intitola APPA - Atlante del Patrimonio e del Paesaggio attivo, a sottolineare la specificità fondamentale della nostra iniziativa, che punta direttamente sugli operatori locali, che diventano “Paesaggio attivo” nel momento in cui partecipano alle vicende urbane, nel nostro caso non solo mettendo in vetrina le loro attività ma anche contribuendo alla redazione dei materiali e dei racconti costituenti le schede dei POI.
APPA è un programma avviato da due anni e oggi, verificatone il funzionamento in ambiti come Torino o Este, possiamo riguardarlo nel suo complesso esponendo i criteri che sono alla sua base in modo ordinato. Ci pare che il metodo fondamentale seguito, di raggiungere con ogni parte del nostro progetto un equilibrio tra aspetti diversi e apparentemente contrastanti, sia anche quello che con maggiore semplicità descrive la nostra iniziativa in risposta alla complessa crisi del paesaggio che vogliamo contrastare.
Per questo, come conclusione, proponiamo le cinque coppie di aspetti funzionali e di contenuto che sono affrontate sinergicamente nel progetto APPA e che possiamo considerare le colonne fondanti del nostro progetto.
4.1 Patrimonio/Paesaggio attivo
Del Patrimonio AtlasFor documenta ciò che maggiormente partecipa a comporre il senso di ciascuna città e di ciascun territorio come Bene Comune. Quindi da una parte i punti d’interesse, storici o recenti, di architettura o di vita sociale che connotano e rendono memorabile lo spazio pubblico e le morfologie del paesaggio aperto, e dell’altra quegli aspetti immateriali che definiscono i caratteri riconosciuti di un luogo: dal know-how che sta dietro alle produzioni tipiche (ad es. in Langa) o alla capacità di organizzare eventi ricorrenti (ad es. a Spoleto), alle maestrie artigianali e artistiche (ad es. a Cremona).
D’altra parte siamo convinti che il senso della città come Bene Comune non derivi solo dalle pietre o dalla cultura storicamente consolidata ma anche dalle buone pratiche, dalle “belle azioni” di chi si prende cura della cultura e della qualità della vita urbana, dai progetti realizzati, dalle attività che funzionano per gestire le complessità contemporanee.
Gli operatori che curano queste iniziative si muovono per lo più nell’ambito sociale dei “produttori e curatori di cultura”, che abbiamo evidenziato come risorsa primaria di ogni processo di valorizzazione del paesaggio. Essi vengono segnalati in AtlasFor come “Paesaggio attivo” per le loro realizzazioni e servizi utili alla qualità della vita locale e alla salvaguardia del Bene comune di ogni città o territorio.
E’ un mondo complessivamente sconosciuto, ricco di sorprese positive, difficile da far emergere, anche perché tocca una ricca varietà di produzioni sino ad ora tenute settorialmente separate: dai “normali” gestori di beni culturali ai curatori di centri di performing art, dagli innovatori nel sociale, per l’accoglienza e l’accessibilità agli operatori per la formazione permanente in temi culturali, per la ricettività e la ristorazione etc.
Per riuscire a far emergere le eccellenze del “Paesaggio attivo” abbiamo attivato due canali: da una parte contiamo sulle capacità di ricognizione di “antenne” locali, scelti tra gli stakeholder e i grandi conoscitori delle vicende del territorio, o acquisendo le selezioni nazionali o internazionali dei contest per le migliori performances settoriali e facendole “atterrare” nei luoghi dove si producono o sono situati gli operatori. Così stiamo facendo con i selezionati nei Premi del Paesaggio, con le attività dei Club per l’UNESCO, con le azioni programmate dai Parchi o dagli Ecomusei o con le attività ricettive o di ristorazione scelte da Slow Food.
Localizzando le iniziative o i servizi di maggiore qualità emergono singolari aspetti di prossimità e di relazione sia tra gli operatori, sia tra questi e gli aspetti patrimoniali della città: i luoghi significativi e quelli produttivi di cultura, le architetture notevoli o i paesaggi tradizionali si incrociano e suggeriscono possibili sinergie con i centri di attività e i luoghi di innovazione.
4.2 Highlights/Beni diffusi
Obiettivo primario di APPA è la “territorializzazione” del riconoscimento del Patrimonio culturale: si vorrebbe passare da un immaginario dell’identità dei luoghi fatto solo dai “beni-bandiera” alla pluralità dei punti di interesse diffusi e soprattutto ad un effetto di insieme che faccia apprezzare in una sorta di feeling le specificità complessive di ogni città o di ogni ambito territoriale. La necessità di una strategia di integrazione tra highlights e beni diffusi è emersa in modo evidente in una sede appropriata: la Conferenza nazionale dei Beni UNESCO del 2016, in cui al lamento dei Siti sconosciuti e isolati si accompagnava, in un bilanciamento negativo, quello dei sindaci dei paesi soffocati dal turismo mordi-e-fuggi che il logo UNESCO richiama. La Valle Camonica soffre come S. Giminiano per opposti motivi, riconducibili comunque alla incapacità di “spalmare” i visitatori sul contesto territoriale, raccontando adeguatamente le qualità dei beni “minori” e facilitandone l’accesso e la comprensione d’insieme con appositi itinerari.
A fronte di questa situazione il Progetto APPA, per iniziare a popolare le mappe delle città e del territorio nazionale, ha individuato una prima serie di ambiti da documentare: quelli di contesto dei Siti UNESCO e delle vie storiche (consolari e medioevali), in cui, dai valichi alpini delle Vie Francigene a alle bellezze intorno a Palermo contiamo di raccontare oltre 5.000 punti di interesse.
Il criterio seguito è quello di mostrare i luoghi a partire dai loro aspetti che realmente “fanno la differenza”, cioè che connotano la specificità e l’identità di quell’ambito (come Barthes diceva del punctum che rendeva significativa ogni fotografia).
Nel territorio il punctum identitario non è sempre il castello o il duomo: in certi paesi del Piemonte o delle Marche interessa più il muro di fondazione che le torri coi merli (perché solo con quel muro si può giocare da secoli alla pallapugno - o col bracciale ), o conta la caletta dei pescatori più della passeggiata a mare, la piazza del mercato più di quella del municipio.
Dunque APPA segue una strategia “dissipativa”, mette continuamente in relazione i punti di interesse con il loro intorno, evidenzia gli aspetti del patrimonio culturale, monumentale o meno, per il ruolo che svolgono (ora o allora) nella città vissuta, fa emergere componenti anche minori del territorio produttivo o seleziona itinerari perché fanno emergere storie intriganti, o per la collocazione in luoghi affascinanti, o perché sono indizi di altre curiosità da scoprire.
4.3 Immagini/Racconto
Se cento anni fa il Touring Club presentò i libri fotografici delle regioni d’Italia come una novità, oggi è evidente che la comunicazione è con assoluta prevalenza affidata all’immagine (ferma o preferibilmente in movimento). L’immagine non è un segno denotante un significato preciso, è piena di connotati, veicola un senso approssimativo ma coinvolgente componenti sentimentali, rimandi ad altre immagini secondo connessioni soggettive che sfuggono alla ragione.
Negli ultimi 100 anni le immagini sono diventate pervasive, e non documentano solo la cultura “ufficiale” ma anche la cronaca, il costume, le canzoni, le ambientazioni dei film, i particolari che sfuggono a prima vista. Sono contenuti di conoscenza ed emozione, che mettiamo a disposizione nel momento dell’approccio diretto, organizzati per la visita in una narrazione continuamente implementabile. Infatti AtlasFor sfrutta la tecnologia che offre la possibilità di disporre di immagini e video di fronte a un monumento o in un qualsiasi luogo, per vedere com’era o come sarà, per confrontare l’atmosfera di allora con quella attuale. Foto o video presentano la storia, i progetti, gli eventi, i contesti e le opere d’arte che hanno visto protagonista ciascun bene del patrimonio culturale, ciascun luogo della città.
In questo modo si forma un libro illustrato: la scheda di ciascun punto di interesse presenta un’immagine con una didascalia per ogni pagina.
Ma la comunicazione per immagini, non coordinata e ben integrata, rischia di alimentare quella frammentazione dell’informazione e quella incapacità di comprensione della complessità che sono la peste degli approcci alla cultura delle ultime generazioni.
Quindi, se da una parte AtlasFor fornisce sequenze di immagini per arricchire il feeling della visita, dall’altra le si vuole collegare secondo un fil-rouge che ne tenga insieme il senso, facendole partecipare ad un unico ritratto di ciascun luogo.
Per svolgere questo compito, difficile ma indispensabile, stiamo provando una modalità di scrittura concentrata nella didascalia delle immagini ma secondo uno svolgimento che sviluppi ogni scheda come un racconto, a partire dalla collocazione del luogo nel contesto, dalla sua storia, dai progetti che l’hanno definito, sino agli eventi di cui è stato teatro, ai particolari intriganti che nasconde, alle sensazioni che gli artisti hanno provato e cercato di veicolare.
Si vuole ottenere un racconto in cui la scrittura sia al servizio delle immagini e ne costituisca il connettivo. Per questo cerchiamo di unificare uno “stile” di AtlasFor, da declinare però nei contributi dei molti autori che ci stanno aiutando, perché per ogni città, per ogni territorio sono necessarie le parole di chi ha ormai quel paesaggio nel suo DNA e ne sa far sentire il profumo d’insieme a partire da un particolare, da un evento, da un ricordo.
D’altra parte cerchiamo di cogliere il racconto degli operatori del “Paesaggio attivo”, perché nessun giardino è interessante come quello che ti viene presentato da chi lo cura ogni giorno. E l’Italia, “giardino d’Europa”, ha giardinieri in ogni dove: centinaia di migliaia di persone che si danno da fare per mantenerlo e offrirlo al meglio al visitatore, anche con la capacità di narrazione che deriva da un sapere consolidato.
4.4 Documentazione d’archivio/Vetrina delle iniziative
La possibilità di portare sui luoghi documenti iconografici di ogni genere apre scenari operativi molto articolati. C’è una variegata offerta potenziale: pensiamo all’archivista che conserva carte storiche infragilite dal tempo e ogni anno meno esponibili, al collezionista che ha lasciato un tesoretto di foto d’epoca, all’architetto che sta perdendo i propri progetti disegnati su lucido e riprodotti in eliografie. Se carte, foto, progetti fossero digitalizzati, potrebbero diventare pubblici senza rischi, mentre gli originali potrebbero essere conservati in ambienti adatti, senza nessuno che ne chieda più l’accesso. Ma tutto ciò avviene con fatica e solo per i documenti più “utili”, anche perché sino ad ora non se ne vede la domanda, se non da parte di pochi studiosi o laureandi.
Invece c’è una domanda potenziale, e l’abbiamo verificato a Torino con 300 studenti per l’Alternanza scuola-lavoro e con l’Ordine degli architetti: ogni insegnante vorrebbe mettere in mano agli studenti un tablet che contiene le immagini della storia che è passata su un luogo e andare a discuterne proprio in quel luogo; ogni architetto vorrebbe andare a vedere un’architettura recente potendo disporre, lì davanti, delle sezioni e delle piante di progetto che, forse, sono state pubblicate in una rivista specializzata dieci anni prima.
Dunque AtlasFor è organizzato per esporre i documenti iconografici con riferimento ai luoghi: offre un modo immediatamente utile di rendere pubblici i preziosi archivi di immagini degli operatori istituzionali, dall’Istituto Luce agli Archivi di Stato, e degli innumerevoli archivi privati, inediti per i costi di pubblicazione cartacea (o editi e finiti in scaffali polverosi). Ma solo negli ultimi mesi i canali istituzionali stanno progressivamente diventando abbordabili dall’utenza ordinaria e alcuni detentori di archivi iconografici privati stanno entrando in contatto con l’Associazione Landscapefor. Sino ad ora abbiamo cominciato a riportare sulla mappa il racconto del territorio con i materiali disponibili in rete o nelle pubblicazioni che lo consentono.
È qui che si trovano le cartoline della città di una volta, i siti della nostalgia con cui abbiamo aperto il discorso, ma si tratta comunque di un immenso archivio informale, apparentemente raggiungibile con una semplice query su Google, ma di fatto frammentario, non ordinato e quindi, all’occorrenza, impraticabile ai nostri fini se non come deposito di materiale da organizzare in racconto, luogo per luogo.
Ma, per documentare la coppia Patrimonio/Paesaggio attivo, parallelamente ai documenti d’archivio AtlasFor riproduce documenti sulle iniziative culturali, per offrire un racconto integrato dei luoghi, tra storia, progetto e attualità.
In questo senso AtlasFor offre una vetrina a disposizione degli operatori che svolgono servizi di qualità o curano la qualità culturale del territorio. Sono le attività delle associazioni che raccolgono testimonianze storiche, dei curatori di beni altrimenti in abbandono ma anche degli “hotel de charme”, dei produttori di vini o cibi tipici.
Negli ambiti territoriali interessati da APPA (nel 2019 le regioni del nord-ovest) si offre ad una selezione di operatori del “Paesaggio attivo” una sorta di vetrina, in modo da favorirne la capacità di promozione con la segnalazione autonoma delle proprie iniziative, non solo nella costruzione della scheda della propria attività localizzata, ma anche con la dotazione di una finestra News che riprendendo gli avvisi postati su Facebook da ciascun soggetto fa brillare l’icona del loro POI sull’Atlante nei giorni precedenti l’evento e viene pubblicata su un Calendario Eventi locale e/o di rete. Un esempio è il Calendario del “Paesaggio attivo” a Torino, dove , attraverso alcune “antenne” per ogni quartiere si sono coinvolti oltre cento soggetti (attivabile dall’archivio di AtlasFor Torino Itinerari del centro).
4.5 Racconto dell’Ospite/Sguardo del Visitatore.
Secondo noi chi ai luoghi dedica cure e attenzioni è anche il più adatto a fornire materiali e chiavi interpretative per descriverli. Vorremmo che ciascuno degli operatori locali coinvolti vestisse i panni di un ospite che riceve amici e che fornisce ad essi un racconto delle vicende che ha vissuto in quei luoghi o che a sua volta ha sentito raccontare.
Cerchiamo in essi il Racconto dell’Ospite perché è più intrigante, più emozionante, più coinvolgente di qualsiasi altra guida. Perché fa conoscere, a un pubblico vasto e internazionale, persone e non solo pietre, attività e non solo monumenti, orgoglio locale e senso d’identità e non solo storia o natura. Perché rende automatico e conveniente l’aggiornamento, sulla base delle “vetrine” dove gli operatori riportano le iniziative, i servizi, i prodotti, gli eventi.
Ma al Racconto dell’Ospite, curatore fondamentale dei contenuti dell’Atlante, noi vogliamo accompagnare il dito alzato, l’osservazione impertinente, l’ironia di chi guarda dal loggione.
Ci interessa il foresto geniale che percepisce al volo un feeling, una traccia, un segno implicito e da questo, come al mulinello di un pescatore di fiume, risale a un nucleo forte di quel territorio, porta a galla un pezzo sommerso di cultura e di modo di fare, suggerisce una via che si perde nel torbido ma che intriga, che pare portare a stanze inesplorate di un luogo che si credeva, sino a un attimo prima, di conoscere in ogni sua piega.
Vogliamo cogliere il prodotto di un altro tipo di curatore del paesaggio, non stanziale ma nomade, esploratore: è il fotografo che cammina sui crinali, il blogger che passa la sera al tavolo con buon vino e vista sulla piazza, il performer che anima un prato al margine del bosco in una sera d’estate, l’architetto che rende abitabile una rovina. È lo Sguardo del visitatore, frutto di un’esperienza, di un vissuto concentrato spesso in poche ore, con pochi testimoni. È un tesoro che si perde, se non lo si conserva a portata di ogni altro visitatore, a disposizione di chi di nuovo fa l’esperienza di quel paesaggio: il video o la foto non riprodurranno certo l’intensità di quella esperienza produttiva, ma sono meglio che niente, e soprattutto portano tutti ad imparare la lezione n. 1 del paesaggio: un luogo è un’incitazione a guardare con altri occhi, ad ascoltare con nuove orecchie, a toccare con mano scorze e pietre, a parlare con persone semplicemente perché sono lì.
Ecco: AtlasFor vuole far confluire sul curioso (“del luogo” o “a luogo”, come i complementi latini) immagini e video che portino stimoli diversi e complementari: da una parte dagli archivi della memoria e del sapere consolidato locale e dall’altra dalle sensibilità e dalle progettualità più diverse che, prese dalla potenza di quel paesaggio, hanno reagito e secreto segni incisivi e destabilizzanti.
Un’intera sezione di AtlasFor è dedicata a esporre le riproduzioni d’autore (foto, quadri, video, musiche), nei luoghi a cui si riferiscono. Così, ad esempio a Torino ci possono emozionare le scene di film di Dario Argento o di Ettore Scola, le inquadrature di Bernardo Bellotto o di Mario Gabinio, che possiamo rivedere con il nostro sguardo dal punto in cui sono state prese.
Se con il Racconto dell’Ospite si entra in contatto con il “Paesaggio attivo”, con lo Sguardo del Visitatore il visitatore stesso diventa “Paesaggio attivo”, acquisisce i modelli e gli esempi per vedere con occhi particolari, per aggiungere un tocco interpretativo esterno a quello che ti ha raccontato l’abitante. Infatti AtlasFor consente al visitatore accreditato di inserire le proprie immagini, commentate con didascalia, e di costruire un archivio privato, accessibile solo a lui, per dare forma di storytelling alle impressioni e all’indagine sui luoghi preferiti, con propri dossier e itinerari redatti scegliendo materiali già presenti in Atlas e accompagnandoli ai propri.
Così si completa il progetto: AtlasFor ci fa rendere conto del paesaggio patrimoniale e di quello attivo, componendo dossier di materiali prevalentemente iconografici scelti e raccontati dai curatori locali, dalla capacità di esplorazione di artisti e visitatori d’eccezione ma anche normali, come ciascuno di noi. Tutto serve non solo per mostrare la ricchezza del patrimonio diffuso e le potenzialità del lavoro culturale che continuamente svolgono i mille operatori locali ma anche per renderci consapevoli di quanto sia facile e affascinante lasciarsi coinvolgere nella cura del paesaggio e della città, che sono già nostre o che lo diventano per elezione.
Per approfondimenti vedi il VIDEO di presentazione.
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Il disegno di Jacques Carelman rappresenta bene lo spirito di APPA: mettere a sistema e far venire alla luce il lavorio continuo svolto da migliaia di persone, ogni giorno, per mantenere la Bellezza nel nostro paese.
L’Associazione LandscapeFor (LSF) cura da anni una piattaforma nazionale per presentare e raccontare per immagini il patrimonio culturale, materiale e immateriale: LandscapeFor Atlas.
Si tratta di una web-app online, utilizzabile anche con smartphone e tablet, con una dotazione multimediale per illustrare i punti di interesse del territorio georeferenziati su mappe.
Una scheda con un dossier d’immagini, video e frame di film presenta la storia, i progetti, gli eventi, i contesti e i racconti che hanno visto protagonista ciascun punto di interesse (POI).
Questo repertorio è a disposizione del visitatore, in modo da arricchire l’approccio diretto con contenuti di conoscenza e di emozione, organizzati in una sorta di narrazione, implementabile, aggiornabile e traducibile.
LandscapeFor Atlas, presentata al Mibact e al Miur, è già attiva con una serie di sperimentazioni (Este, Torino, Rete Paesaggio alpino), consultabili nel sito www.landscapefor.eu.
IL PROGETTO APPA
è un programma di “popolamento” di LandscapeFor Atlas, per illustrare entro il 2020 circa 10.000 punti di interesse, presentando contestualmente due aspetti complementari del paesaggio italiano, per la prima volta leggibili nelle loro interazioni e connessi da itinerari:
A. per il patrimonio, le emergenze diffuse presenti nei contesti dei beni qualificati dall’UNESCO (gli intorni dei siti da Lista patrimonio, MAB, Città creative) e delle principali vie storiche (romane e francigene). Dalla mappa allegata si leggono gli oltre 50 ambiti che comprendono oltre un terzo del Paese e oltre la metà dei maggiori beni culturali (circa 5.000), messi in mostra per promuovere il patrimonio, le attività di pregio e i servizi della parte meno conosciuta, ma preziosa per una migliore distribuzione dei flussi turistici e una diffusione delle ricadute della polarizzazione dei Beni iscritti alla lista.
B. per il “paesaggio attivo”, i soggetti d’eccellenza, fornitori di servizi per la ricettività, produzioni tipiche, iniziative di valorizzazione di identità locali (oltre 5.000 di cui circa 3.000 presenti negli ambiti A). Tali soggetti, individuati da parte di stakeholder locali, vengono inseriti entro selezioni nazionali di iniziative e attività, distinte per aspetti tematici:
Per promuovere e segnalare le loro iniziative gli operatori del “Paesaggio attivo” possono gestire autonomamente una finestra Eventi, nella scheda ad essi dedicata, che fa brillare l’icona del loro POI sull’Atlante nei giorni precedenti l’evento e viene pubblicata su un Calendario Eventi locale e/o di rete.
Per realizzare il progetto, per ora affrontato con risorse proprie e in attesa di contributi economici, l’Associazione LandscapeFor “mette a sistema” le collaborazioni ormai consolidate con diversi soggetti attivi nel campo del management delle attività culturali, del paesaggio e dello sviluppo locale, integrandoli con soggetti portatori di tematiche specifiche.
Oltre ai Ministeri e agli enti regionali e locali, un primo elenco di tali soggetti, prevalentemente del III settore e da completare, comprende:
Paolo Castelnovi per il Giornale delle fondazioni
Paesaggio chi? Il bosco può bruciare
Perché gli eventi catastrofici non hanno peso nell’opinione pubblica, oltre l’emergenza e la spettacolarizzazione? Perché non curiamo la manutenzione straordinaria della casa che abitiamo?
Quando l’odore acre e qualche cenere di bosco arriva a Piazza S.Carlo, il torinese si allarma.
Come? Brucia il monte e non facciamo niente? Poi qualche assessore che si vuole togliere le multe di divieto di sosta o qualche vip che ha importunato la segretaria prendono il sopravvento sul vento di ponente carico di fumo. E scompare l’attenzione, veloce come era apparsa.
Comunque lo scandalo, le migliaia di ettari di bosco che ogni anno vanno in fumo, per un attimo ha toccato una grande città del Nord Italia.
Da buon paesaggista, più dell’evento in sè mi interessa come viene percepito, quale interazione innesca sulla gente. Spenti i fuochi e sedata l’apprensione, resta da capire quale strano meccanismo socioculturale rende trascurabile un rischio collettivo, anche quando si manifesta come urgenza catastrofica, mentre trova una diffusa risonanza emotiva un rischio individuale, ma del tutto potenziale, statisticamente molto improbabile, come una rapina in casa propria.
Incapace di dare una sola chiave interpretativa su un tema così complesso, provo ad elencare alcuni dati “caldi” (dal Ministero competente, dai siti dei Vigili del Fuoco, da datiallefiamme.it), a fronte dei quali ipotizzare le ragioni profonde delle reazioni nell’atteggiamento corrente e più diffuso tra i cittadini:
- il cambiamento climatico sta portando un innalzamento delle punte metereologiche estreme, a cui le regioni temperate come le nostre non erano abituate. Tra queste la siccità porta esiti catastrofici diffusi ed imprevisti, come il facile diffondersi degli incendi;
- i processi di abbandono della montagna, ormai cinquantennali, non accennano a fermarsi nel versante italiano delle Alpi occidentali e friulane (mentre la demografia inverte la tendenza depressiva in molte altre regioni alpine, da quelle francesi al Trentino), con esiti gravi sull’assetto del bosco, che diventa invasivo, di difficile gestione e mai pulito;
- gli incendi crescono in Italia nell’ultimo decennio, da 50.000 ettari ne hanno interessato quest’anno quasi 150.000: 12 volte la superficie del comune di Torino. L’andamento storico degli incendi, negli ultimi 20 anni, ha punte e declini che coincidono, in particolare nelle regioni meridionali, con i provvedimenti legislativi e finanziari da una parte per aiutare i territori danneggiati o dall’altra per stroncare gli abusi;
- 9 incendi boschivi su 10 sono dolosi. La loro dimensione complessiva sta superando quelli delle aree non boscate, in particolare al Sud, sempre nelle stesse province. Ogni anno vanno in fumo quasi 1/3 (!) dei boschi siciliani, dove sono assunti dalla Regione più di 24.000 forestali (!);
- in Piemonte gli incendi sono normalmente ridotti, in complesso interessano meno di 300 ettari all’anno e per oltre il 75% coinvolgono boschi di primo versante, su aree spesso un tempo coltivate, vicino alle piane di fondovalle. I fuochi dei giorni scorsi forse presentano un salto di paradigma: hanno interessato quasi 2000 ettari (come 4000 stadi di calcio!), con caratteristiche analoghe, per dimensione, diffusione e innesco, a quelli meridionali.
I dati sono coerenti econfermano: che boschi non puliti, in territori abbandonati e dissecati, sono facile habitat per chi innesca fiamme che il vento porta a incendi catastrofici, quasi sempre per criminale disegno di utilità marginale, in particolare al Sud e quest’anno forse anche al Nord.
Ma, a fronte di queste evidenze, per lo più risapute, la reazione dell’opinione pubblica è debole, quasi disinteressata.
I media obbediscono al mood generale, trascurando velocemente le notizie, a meno di vittime nostrane da piangere o di gravi danni patrimoniali privati da lamentare. Quelli sempre e comunque, per rimanere preoccupati per sé, a prescindere.
L’impressionante ottusità generale, a fronte di una relazione palese e diretta tra situazione del contesto e situazione personale, si spiega solo con una sorta di autocensura malata, un blocco collettivo da panico che impedisce ogni decisione razionale. Siamo come chi rimane immobile in una situazione rischiosa, che normalmente spinge alla fuga.
Si può riscuotere la gente dal torpore? Forse. Ma dobbiamo risalire a monte. Dobbiamo ammettere che, nell’opinione generale, non si crede sino in fondo che ci sia una relazione diretta tra noi e il contesto. Dobbiamo riconoscere che abbiamo lasciato crescere un vuoto tra ciò che la ragione ritiene ovvio e il trend del comportamento collettivo. L’intellettuale e il tecnico che pensavano di essere in prima linea sulle frontiere dell’ignoto e delle scoperte devono attestare l’urgenza e l’importanza di lavorare in questa retroguardia, umiliante e defatigante, troppo spesso lasciata al politico: convincere tutti a misurarsi con la realtà, a tener conto di ciò che siamo confronto al mondo e non solo di ciò che vogliamo o speriamo.
Vale per gli incendi piemontesi ma vale anche per la parodia dell’indipendenza (catalana o de noatri), varrà per i sistemi elettorali che portano a vittorie inutili, per le promesse di benessere ora a spese dei figli dopo.
Detto così sembra troppo generico, un modo per mandare la palla in tribuna visto che non si riesce a fare gol, ma è evidente che non possiamo fare veri passi avanti in democrazia sinché l’opinione pubblica non si capacita delle condizioni reali in cui si muove.
Credo che il discredito della politica abbia la sua parte in questo processo di progressiva impotenza che abbiamo lasciato pervadere, che non si sente più di partecipare a grandi progetti collettivi, come sono stati l’unificazione del Paese, la sua infrastrutturazione, l’alfabetizzazione, la ricostruzione. Il malgoverno impunito di mille urgenze ha reso insormontabile la diffidenza per le soluzioni generali, per cui, a meno di forti e coerenti segnali di cambio di rotta, sono premiate solo le soluzioni fai-da-te, la riduzione dell’orizzonte ai progetti individuali. In questo clima politico temi come il cambiamento climatico suonano a vuoto. I risanamenti ambientali e idrogeologici, urgenti e strategici, non coinvolgono a sufficienza la gente da motivare concentrazioni di risorse e contrazioni di rendite.
D’altra parte quando le soluzioni individuali ai problemi sono le uniche ad avere credito, finisce per cadere ogni distinzione tra quelle che premiano interessi comuni o viceversa tornaconti personali: si loda allo stesso modo il sindaco che, superando ogni burocrazia superiore, mette in salvo il suo paese e l’imprenditore che compra la fabbrica dissestata e ci guadagna dimezzando il personale.
Il bene comune non costituisce più una discriminante di valore, così come il ruolo dell’impiegato pubblico, che diventa eroico se è vigile del fuoco all’opera ma può essere contestato se è insegnante severo o funzionario che lotta contro l’abusivismo.
E’ una cultura dell’indifferenza che ha radici strutturali e non si supererà in tempi brevi. Ma non si può cominciare a lavorarci se non dalla comunicazione, dalla formazione di un’opinione pubblica a cui si indichino le conseguenze delle diverse posizioni, che rimanga inchiodata alla concretezza dei temi in gioco e non accetti chi offre soluzioni irrealistiche o nega l’esistenza dei problemi.
Già, perché il grado zero della coscienza politica, il peggiore, è quello negazionista, che nasconde la realtà e la sostituisce con rappresentazioni generiche e di comodo. In questo il paesaggio, quello reale, il territorio conosciuto e frequentato, è un prezioso antidoto allo strapotere delle informazioni effimere e generiche, quando non false, che passano i media e la rete. Ma anche questo è sotto schiaffo: chi conosce i versanti montani andati a fuoco, chi li ha visti se non da un parabrezza lungo l’autostrada o in fondo alla città, come una quinta teatrale? La città (o addirittura il nostro quartiere) confina con luoghi sconosciuti, che potrebbero anche essere i fondali di un grande Truman show, per quello che ce ne frega…
Per queste situazioni mia nonna canticchiava con sarcasmo: nessuno sa niente, nessun sa dov’è… allora l’Oriente vuol dir che non c’è… Se una filastrocca ottocentesca sintetizza ancora perfettamente l’ignavia del nostro tempo, vuol dire che siamo di fronte a una stratificazione socioculturale profonda, resiliente, che non si scuote certo per un po’ di fumo in piazza, e lascia intrepida che bruci tutto, se la SUA casa non è lambita. SE.
I partecipanti ad un bando, gestito dai Club Unesco italiani, che premia i migliori interventi di imprenditori per qualificare le loro attività e il loro contesto paesaggistico, la Fabbrica nel Paesaggio.