Il paesaggio periurbano di Torino: identità di città e di campagna
Il territorio intorno a Torino, che è stato indagato in questa ricerca nelle sue parti di pianura, collinari e pedemontane, dal parallelo di Carmagnola a quello di Ciriè, dalle porte della Val di Susa a Chieri, offre un paesaggio di transizione, che solo in pochi casi va assumendo quella facies semistabile con cui la grande periferia metropolitana normalmente si distingue, nell'immagine collettiva, sia dalla città che dalla campagna.
La tesi che percorre questo contributo è che nella percezione collettiva la "periferia" di Torino non esista come entità autonoma distinta dalla “città” e dalla “campagna”, ma che il rapporto strutturale tra città e campagna, pur in trasformazione e talvolta in dialettica, quasi ovunque permanga nella identità delle sue parti, indipendenti e diverse caso per caso.
Non sembra verificarsi a Torino in modo massiccio quel grande processo di omogeneizzazione e di formazione di un nuovo "non-paesaggio" o "paesaggio a bassa identità" che è per assurdo l'aspetto più caratterizzante dei casi di scuola delle periferie metropolitane.
I fattori fondamentali di questa resilienza[1] alla banalizzazione e alla perdita di identità del paesaggio di città e di quello di campagna nel Torinese si devono probabilmente ricercare:
- in una particolare complessità della struttura geomorfologica della regione geografica in cui è ospitata l’area metropolitana, notevolmente caratterizzata al suo interno dal diverso intreccio di aspetti pedemontani, fluviali e collinari,
- nel disegno insediativo del tutto peculiare, che trae spunto e sottolinea i caratteri geomorfologici non solo con i tratti di differenti modelli di organizzazione rurale ma anche con una rete di presìdi nobili e addirittura regi che l'hanno segnato in una storia secolare,
- nella pluralità di comunità locali ancora vive nonostante l' "ombra" della grande città e dei suoi processi centralistici, con una differenziazione interna frutto distante di quell’insediamento storicamente articolato in una serie di diversi paesaggi, che non residua solo in complesse tracce fisiche sul territorio ma permane in un senso sociale dei luoghi, prolunga la forza delle differenze nella cultura comune e quotidiana, anche quando le differenze fisicamente si attenuano.
Bisogna anche tener conto che, mentre in altre aree metropolitane l’immagine della città prevale su quella dell’intorno rurale già da oltre un secolo, per Torino si è svolto un processo di integrazione più equilibrato, tra modi d'uso rurali e modi urbani, durato sino a una o due generazioni fa: è solo a partire dagli anni '50 del ‘900 che la costruzione di espansioni urbanizzative è intervenuta prepotentemente e non episodicamente su un sistema città-campagna piuttosto consolidato e bilanciato.
Anche nella crescita urbana degli ultimi 50 anni non assistiamo tanto allo spandersi incontrastato di un blob del capoluogo quanto piuttosto a piccole (o grandi) eruzioni plurime in una ventina di centri di cintura, progressivamente avvicinati e solo in qualche situazione ricongiunti dai nuovi quartieri residenziali o, più spesso, da protundimenti lineari di insediamenti commerciali o logistici lungo gli assi viari maggiori.
Pur presenti, in quasi nessun caso queste dinamiche diffusive e onnivore, sono riuscite a scalzare l'immagine consolidata del territorio periurbano, in cui la città è leggibile come organismo che cresce ai bordi e si sovrappone progressivamente alla campagna, comunque percepita come un altro sistema organico, che comprende la natura più o meno condizionata dalle colture, il prevalere delle aree aperte e vegetate, della profondità del campo visivo, bordato da quinte verdi, la bassa densità delle presenze antropiche e del costruito.
Nell'immagine collettiva di alcuni luoghi le regole dei paesaggi rurali resistono, in altre cedono di schianto alle regole del paesaggio urbano, ma quasi mai prende corpo un diffuso e autonomo senso del paesaggio della periferia, estraneo a questa dialettica ormai secolare, giunta forse oggi ad una fase particolarmente complessa, ma sempre strutturalmente bipolare. Insomma è come se all’abitante metropolitano, moderno Bertoldo, fosse chiesto di raccontare dove vive, e lui descrivesse questo mondo come una linea di confine dove ci si abitua ad ogni passo a variare lo statuto dei luoghi: girati da una parte si è in città, voltati dall’altra si è immediatamente in campagna.
Tutto ciò non significa, ovviamente, che il paesaggio periurbano di Torino sia sano e riconosciuto nelle sue parti in modo netto, nell’immagine collettiva della società che lo frequenta: significa semmai che le numerose e gravi problematiche di degrado e di perdita di senso, provocate dall’intrusione violenta di complessi edificati e di infrastrutture autistiche rispetto al contesto, non hanno come sbocco la formazione di un paesaggio di periferia, di un senso dei luoghi definitivamente altro da quella città e da quella campagna che hanno prevalso sino a qualche anno fa.
Si prospetta piuttosto la necessità di una via per valorizzare, caso per caso o l’effetto “città” o l’effetto “campagna”, dove è possibile metabolizzando nelle loro immagini rinnovate le nuove caratterizzazioni del bordo metropolitano.
Ad esempio sembra che la fascia marginale delle attrezzature e delle infrastrutture, così pesante per l'impronta ambientale che comporta, non abbia quasi posto nell'immaginario collettivo, che non si metabolizzi il loro ingombro fisico in uno specifico senso del paesaggio, ma lo si subisca come limite, barriera priva di significato. Sintomo di questa considerazione distinta delle componenti del paesaggio è il modo d’uso del territorio non urbano ai bordi degli oggetti “intrusi”: non esiste quasi l’abbandono e il relitto, così diffusi invece nelle altre aree metropolitane; le fasce alberate, le coltivazioni e gli orti si estendono sino ai muri delle fabbriche, alle discariche e alle recinzioni di autostrade ed aeroporti.
[1] In ecologia e biologia la resilienza è la capacità di autoripararsi dopo un danno. In linea di massima in un ecosistema ad una maggiore variabilità dei fattori ambientali corrisponde un’alta resilienza delle specie che vi appartengono.
In psicologia, secondo Boris Cyrulnik, è il processo che permette la ripresa di uno sviluppo possibile dopo una lacerazione traumatica e nonostante la presenza di circostanze avverse.
Nuove tipologie dello sguardo sul paesaggio: i paesaggi percorsi dai torinesi, i paesaggi dei contrasti locali, i paesaggi senza padrone
Dunque non pare che le trasformazioni vengano percepite come produttrici di un nuovo “stato” consolidato dei luoghi, ma semmai solo come una situazione di conflitto in atto, di un assetto transeunte in cui ci si abitua ad abitare come ospiti, spettatori impotenti ma non per questo flessibili nelle proprie categorie interpretative. Anzi, se città e campagna resistono come coppia di categorie strutturali nel giudizio comune, sembra che nella cultura degli abitanti della Corona verde sia soprattutto l’immagine della campagna a restare solida, intatta al di là delle trasformazioni in atto.
Sino a pochi anni fa si trovava solo l’agricoltore, in ambigua dialettica con il costruttore (locale o venuto dalla metropoli, poco importa), entrambi soggetti produttori del territorio, a rappresentare nel senso del paesaggio non solo gli interessi ma anche le due mentalità tra città e campagna. Oggi la distribuzione degli abitanti urbani su un vasto territorio di cintura, la complessa mobilità metropolitana e la riduzione della cultura rurale, da dominante ad una appartenenza marginale e minoritaria, spezzano il dualismo e fanno avanzare nuovi modelli culturali di fruizione.
La progressiva distanza dagli strumenti produttivi, direttamente incisivi sulla sostanza del paesaggio, rende il nuovo fruitore del paesaggio metropolitano sempre meno influente sulle trasformazioni fisiche, ma non per questo meno resistente alle derive di senso e all’irrompere di nuovi significati attribuiti ai luoghi. L’assetto della cultura del paesaggio sembra durare di più delle colture e degli usi urbani del territorio, almeno nei suoi stereotipi e nella sua retorica di dialettica tra città e campagna.
Se città e campagna continuano ad essere i riferimenti concettuali fondamentali del senso del paesaggio torinese, semmai si stanno modificando le tipologie dei “proprietari culturali” dei paesaggi aperti nell’area metropolitana. Certamente va considerato il formarsi di nuove appartenenze socioculturali, che generano modi di percepire il paesaggio, almeno tre sguardi relativamente diversi, seppure nel quadro delle categorie strutturali di città e di campagna:
- lo sguardo spiccatamente urbano, che percorre il territorio periurbano come lungo le aste di una rete, piuttosto che abitarlo e conoscerne le estensioni. Si tratta di un fruitore mobile, che, mutuando la definizione di "city user" [1], potrebbe essere definito un "country user". La disattenzione lungo il percorso tra un nodo e l’altro e la superficialità dello sguardo metropolitano sul paesaggio minuto e di dettaglio lungo il percorso derivano sia dalla prevalenza della fruizione dal parabrezza di un’auto in corsa o alla sosta casuale rispetto al contatto diretto e consapevole, sia dalla distorsione spaesante dei panorami che si mostrano dalle nuove infrastrutture tracciate nel “retro” dei quartieri urbani, squarciando e rendendo irriconoscibili trame colturali secolari.
Nell’impoverimento della sintassi dei segni paesistici percepiti bastano pochi filari d’alberi o una cascina isolata in un campo a segnare l’uscita dalla città, come accade a chi percorre l’innesto verso sud della tangenziale di Torino. Viceversa la città si offre all’improvviso, con le sue mura, le sue fabbriche e le sue torri, a chi viene lungo l’autostrada da nord. Verso ovest la città è ormai sistema di segni incontrastati sino al bordo pedemontano, dove improvvisamente cede alle figure seminaturali della serra di Rivoli e dei versanti della Val di Susa, così come verso est i boschi della collina coprono di un pudico senso di naturalità il panorama, limitando un po’ dal centro di Torino la percezione del diffuso “svillettamento” che ne fanno di fatto un quartiere urbano.
Nonostante la superficialità dello sguardo di viaggiatore, il "country user" è spesso portatore di seri interessi ambientali o culturali, avanza sul territorio metropolitano come un turista a casa propria, generando in molti casi quei flussi di curiosità che sono gli unici a valorizzare una risorsa localmente trascurata, a rivitalizzare un ambito dimenticato, a riconnettere in rete sistemi di segni in abbandono, a ridare motivo di manutenzione del territorio all’agricoltore e al sindaco del paese, con la sua domanda di immagini di campagna che va costituendo un mercato, un valore di paesaggio privo ormai di altri apprezzatori; - lo sguardo di nicchia, confinato nei microcosmi locali e segnato dai contrasti, da percezioni isolazioniste del mondo, in cui talvolta il paesaggio percepito quotidianamente e consolidato nella memoria assume un ruolo fondamentale. La realtà locale costituisce spesso una sorta di isola di resistenza in culture in cui il resto delle possibili esperienze dirette si va sempre più riducendo e le opinioni generali derivano sempre più da una sfera ideologica inattingibile, separata e virtuale come gli universi televisivi. Quasi sempre un rapporto molto intenso ed esclusivo con il paesaggio locale è parte di una weltanschaung tendenzialmente conservatrice (ma in qualche misura ingenua, proprio per il ridotto orizzonte del campo di attenzione), che resiste alle trasformazioni imposte da modelli palesemente non autoctoni, e viceversa spesso si arrende alle derive locali, subdolamente influenzate da modelli generali e banali, di cui non è però evidente la pressione: si fanno le battaglie contro la nuova strada ma si accettano le distese di vilette.
In quella dimensione culturale e identitaria “a riccio” la consapevolezza del senso del paesaggio, per lo più latente, si consolida ed emerge per lo più nel contrasto ai progetti trasformativi, facendo prendere corpo alle attenzioni su temi ambientali e facilitando l’identificazione collettiva di problematiche territoriali che sono lasciate normalmente ai margini del dibattito politico locale. In ogni caso la modesta dimensione degli ambiti territoriali di interesse, se da un lato agevola i processi identitari, dall’altro riduce la potenzialità di una integrazione con lo sguardo “metropolitano” sopra descritto, e anzi favorisce gli antagonismi locali e la difficoltà del dibattito sulle problematiche generali e di rete. Nell’hinterland di Torino questa situazione è potenzialmente diffusa, soprattutto dove la diversità paesistica agevola la formazione di identità locali: nell’area pedemontana (la polemica sulla Tav insegna...) e in quella collinare, vicino alle vaude, lungo il Po; - lo sguardo residuale, prodotto dalla riduzione della cultura produttivistica del territorio rurale, che lascia scoperti ampi spazi, coltivati in modo marginale, in parte in via di naturalizzazione, per i quali si forma un “limbo identitario”. Per questi ambiti di “terre di nessuno“ vanno in disuso e decadono gli statuti collettivi delle proprietà culturali riconosciute dalle comunità locali e prendono piede usi e appropriazioni particolari, talvolta privatizzanti e al limite del clandestino, altrove sperimentali e aggreganti gruppi di aficionados. In quest’ultimo caso con le nuove attività si innesca una dinamica culturale di riappropriazione che, a partire dal paesaggio, forma nuove comunità di fruitori. Sono processi identitari di piccoli numeri, che attecchiscono in luoghi molto particolari (lungo i corsi d’acqua, in vallette pedemontane o collinari, a ridosso di grandi complessi industriali), spesso riparati dalle dinamiche trasformative dirette e dagli sguardi sia del fruitore metropolitano che di quello locale. Solo raramente gli spazi residuali che ospitano questi processi sono immediatamente ai margini della città (avviene in qualche caso di orti “urbani” autogestiti). Invece quasi in ogni caso i nuovi “proprietari culturali” di quei paesaggi vanno ad ingrossare le file di quelle comunità di nicchia tenacemente attaccate al loro specifico senso del paesaggio locale, anche se non ne sono abitanti, nell’accezione normale del termine.
In conclusione le due grandi modalità di interpretazione del paesaggio periurbano aperto, quella “reticolare metropolitana” e quella di “nicchia isolata” (che sia di pura “tenuta” o sia di riappropriazione attiva del senso locale) non tendono all’integrazione ma piuttosto al contrasto e alla reciproca esclusione. Se dai centri e dalle strade maggiori è implicito uno sguardo generico e omogeneizzante, che poco percepisce le differenze locali e che richiede segni standard (o di natura o di campagna o di urbanità), dai territori emerge un’affezione al particolare, alla specifica condizione di compromissione e di possibile ricucitura, alla appropriazione di ritagli e di frammenti che possono essere messi al centro di un paesaggio di nuova identificazione, visto che quello tradizionalmente riconosciuto è ormai nel suo complesso trasformato e in esso hanno perso forza i caratteri identitari strutturali, storicamente fondanti.
Il ruolo degli spazi aperti metropolitani per il senso geografico del paesaggio
Le riflessioni sopra svolte, sul paesaggio periurbano e sulla diversità degli sguardi che conducono ad esso, derivano da una considerazione complessiva dell’esperienza paesistica dei vari tipi di abitante metropolitano, che nel loro nomadismo interno percorrono indifferentemente spazi urbani e campagne. Il senso del paesaggio posto alla base dell'indagine è quello che si forma spontaneamente nella memoria di un’esperienza complessiva del territorio in cui si abita, senza differenziazioni a priori tra parti aperte e parti costruite, tra città e non città.
Se invece, con Corona verde, concentriamo l’attenzione e il progetto solo sugli spazi aperti, dobbiamo scontare una parzialità del nostro punto di vista ed una difficoltà a valutare equilibratamente il reale ruolo che tali spazi svolgono nel senso del paesaggio consolidato nelle comunità abitanti nell’area metropolitana.
Se la “rivoluzione” del punto di vista, dai centri abitati alle aree esterne, è utile per innovare i paradigmi di indagine in altri settori, come quello ambientale o quello storico, diventa invece un fattore di spaesamento per chi pone al centro della propria indagine il senso comune del paesaggio e il suo carattere olistico. Infatti nella normale percezione del paesaggio le aree libere sono complementari ai luoghi costruiti, ma normalmente sono questi ultimi il centro non solo delle attività ma anche dei segni identitari e dei riferimenti comunemente riconosciuti.
Al di là del comune senso del paesaggio, lo spostamento dell’attenzione dalla città costruita alle aree libere comporta una verifica dell’importanza delle aree vaste, del ruolo che esse svolgono nell’opinione generale, come contesto del sistema costruito. In questa dimensione occorre verificare se, nel nostro senso del paesaggio, convenga ricorrere ad un paradigma geografico piuttosto che (o accanto) a quello urbanistico: se noi, con il nostro sguardo locale o metropolitano, facciamo riferimento solo agli spazi e ai tempi immediati in cui ci muoviamo, per lo più cittadini e "interni", o se invece teniamo conto anche delle relazioni di questi con luoghi e dinamiche trasformative molto più generali, che costituiscono il tema di fondo, l’appartenenza ad un secolo e ad una regione con i suoi ritmi e le sue forme complesse.
Solo in quest’ottica più “geografica” l’indagine sul paesaggio di Corona verde non diventa un’indagine sul senso locale dei pochi che frequentano o abitano i campi al margine delle città metropolitane, ma rimane ancorata ad un aspetto di generalità e di coinvolgimento di tutti gli abitanti del torinese, base indispensabile per ogni seria strategia di valorizzazione e di apprezzamento condiviso delle risorse paesistiche.
D'altra parte, come definito in premessa, si ipotizza che la percezione del paesaggio metropolitano, e degli spazi aperti come sue componenti rilevanti alla scala più generale, non sia applicata in continuum ma costituisca una rete di punti di attenzione e di memoria, immersi in ampi spazi di disattenzione e quindi sia articolata in numerosissime situazioni identitarie distinte, spezzettate e talora contrastanti. Certamente alcuni degli spazi aperti costituiscono il punto di riferimento per ampi contesti e serviranno da orientamento per lunghi tratti di percorso (si pensi a Stupinigi, a Rivoli, a Superga), mentre la memoria di molti altri, pur differenziati e ricchi di identità particolari, non è diffusamente utilizzata per costituire l'immagine generale del paesaggio di una certa regione.
Per rendere conto del ruolo che assumono gli spazi aperti nelle diverse situazioni di paesaggio il territorio non urbanizzato è stato suddiviso in parti sufficientemente ridotte da potersi differenziare per una propria identità nella memoria, e per esse si è individuato un grado di riconoscibilità, cioè una valutazione del potenziale risalto nella percezione e dell'importanza relativa che possono assumere nella memoria collettiva.
Per questo approccio di ricerca si è ipotizzato che solo tra i luoghi a buona riconoscibilità si consolidino i connotati delle variegate e complesse immagini identitarie del territorio metropolitano, quelle che possono essere considerate parte di un sentire comune tra i fruitori dallo sguardo “metropolitano” e i fruitori dallo sguardo “di nicchia”
[1] cfr. G.Martinotti, Metropoli, Bologna, il Mulino, 1993. al cap.3 distingue quattro tipi di popolazione di una city: gli abitanti, i pendolari, i metropolitan businessmen (i quali, con i pendolari frequentano la città per lavoro)) e i city users, che frequentano la città ma non per motivi di lavoro.