Il paesaggio d’eccellenza e i beni culturali da “patrimonio non disponibile” all’uso a risorsa utile per un modello di economia locale sostenibile e innovativo. I processi equilibrati di utilizzo si fondano da una parte sulla conoscenza e sul senso di identità condivisa del proprio territorio come parte fondamentale del paesaggio e dall’altra sulla formazione di una nuova leva di tecnici radicati sui luoghi ma con il coraggio di progettare nuovi utilizzi coerenti con le antiche forme.
In Italia i beni culturali e quelli ambientali sono per lo più considerati “patrimonio non disponibile” all’uso, come se i progetti d’uso fossero contrari alla conservazione e portassero il degrado del bene stesso. Da qualche anno, però, i migliori programmi di sviluppo locale si basano proprio sul paesaggio e pongono i beni come risorsa utile per un modello di economia locale sostenibile e innovativo. Inoltre, come riconosciuto dall’IUC, l’Unione mondiale per la conservazione delle natura, le componenti ambientali più importanti si conservano meglio se inserite in processi equilibrati di utilizzo da parte di comunità consapevoli. Consapevolezza che si fonda sulla conoscenza e sul senso di identità condivisa del proprio territorio come parte fondamentale del paesaggio e sul coraggio di progettare nuovi utilizzi coerenti con le antiche forme.
1. Dopo i piani paesistici
In Italia il regime delle regole ha lunghissimi periodi di gestazione: le norme si attuano con una lentezza che infeltrisce e qualche volta mineralizza i contenuti vivi che pure erano presenti nello spirito del legislatore. Un esempio perfetto: il Codice dei beni culturali, per la parte paesaggistica. A 9 anni dalla sua adozione, a 13 dalla Convenzione europea (CEP), pochissimi sono i Piani paesaggistici regionali pienamente approvati, con accordo sottoscritto con il Ministero (Mibac), e comunque poco si dice al loro interno riguardo le future pratiche gestionali, forse perché non si riesce neppure a definire l’orizzonte in cui si potranno attuare.
Per contro, val più la pratica della grammatica: ci sono regioni già arrivate alla revisione (o all’abrogazione) di versioni del Piano paesaggistico ritenute ormai superate; altre hanno centrato l’attenzione su percorsi paralleli di gestione paesistica per aree specifiche (Lista Unesco, aree protette etc.) trascurando tutto il resto; le più neghittose solo ora stanno mettendo insieme i pezzi per adottare un Piano.
Il trambusto di questo lavorio infinito si spiega con il malvezzo italiano di considerare tutte racchiudibili nell’atto normativo le strategie di conoscenza, salvaguardia, pianificazione e gestione del paesaggio (ciò che chiede la legge come prodotto di un’azione congiunta di Stato e Regioni). Come l’imperatore che, dopo aver assentito a commissionare ad Amadeus un’opera, dice con aria stanca: “…anche questa è fatta”, così amministratori e funzionari pensano di concludere il complesso delle attenzioni dovute al paesaggio con quello che in realtà deve essere un atto inaugurale: la definizione delle regole, contenuta nel Piano. Quindi su quelle regole si soppesano le virgole per anni, mentre non ci si attrezza per sperimentare e rendere operative, autosufficienti, sostenibili economicamente e culturalmente le complesse e molteplici attività gestionali che la salvaguardia e la valorizzazione del paesaggio esigono, oltre alle regole. Le fragilità e le ottusità della non preoccupazione per la razionalità operativa, dell’assenza di risorse umane e materiali per la gestione dei processi, della latitanza della formazione manageriale, non caratterizzano solo le strategie per il paesaggio, ma sono endemiche della pubblica amministrazione. Ma per il paesaggio, che dovrebbe iniziare a dotarsi di strumenti operativi ora, nella crisi, queste carenze rischiano di provocare il blocco di ogni innovazione e di ogni sperimentazione, pur previste dalla legge e dai piani.
In questo scenario desolato ognuno gioca da solo: le Regioni praticamente stanno portando avanti i loro piani senza sentire il bisogno di un confronto sistematico sulle metodologie, tra loro e con il Ministero; le attività sitospecifiche (dell’Unesco, del FAI, delle iniziative locali, del Ministero stesso) non vengono inserite operativamente nelle strategie pianificatorie complessive; anche i piani paesaggistici, pur operando sforzi lodevoli per offrire un quadro strutturato di informazioni sullo stato dei luoghi, non si presentano come strumenti strategici integrati e intersettoriali.
Insomma la pianificazione paesaggistica sembra ad oggi condannata ad una lunga quarantena: quando i piani regionali saranno approvati convivranno da separati con le altre pianificazioni di settore (per l’ambiente, l’agricoltura, l’urbanistica….) e saranno privi di immediata operatività sia per gli aspetti gestionali che per l’attivazione di strategie propositive, in assenza di investimenti (per la crisi) e di capacità organizzative delle attività miste pubblico-private (per la storica aporia sul tema).
Non ci sono rattoppi possibili: è necessaria una radicale innovazione nelle relazioni tra pianificazione (cioè le regole) e pratiche (cioè la gestione), tra soggetti operativi e soggetti di controllo, tra settori concorrenti nelle trasformazioni del paesaggio, da quelli economici, che premono sul territorio, a quelli culturali, che modificano lo sguardo, la memoria, l’atteggiamento progettuale. Perciò è importante avviare un’esplorazione sui criteri e le tecniche che si stanno sperimentando per far fronte ai temi della gestione del paesaggio. E’ una ricognizione urgente e necessaria, proprio perché le possibili soluzioni sono rese impervie dalla crisi e dalla mancanza di risorse, ma appunto per questo richiedono una capacità di innovazione complessiva, strategica sia per la pubblica amministrazione che per tutti gli operatori “di buona volontà”, cioè intenzionati a partecipare, ciascuno a suo modo, alla qualificazione dei beni comuni.
2. Strategie per le pratiche di paesaggio
E’ utile partire dalle procedure e dalle pratiche di attenzione al paesaggio che oggi consideriamo positivamente, individuando, attraverso la loro valutazione, alcuni dei requisiti indispensabili per ottenere risultati operativi nelle future strategie istituzionali di gestione del paesaggio.
Ci può servire da campione virtuoso l’antologia eterogenea degli interventi che sono stati presentati nelle tre selezioni per i Premi del paesaggio (biennali dal 2009), sia nel concorso italiano, gestito dal Mibac, che in quello europeo (che mette a confronto i vincitori dei concorsi nazionali).
Si tratta di esperienze (non progetti ma attività in corso, di cui si possono verificare i primi esiti) improntate al senso ampio del termine paesaggio che viene dalla CEP, di cui il Premio è uno degli strumenti previsti, per suscitare il confronto e il dibattito internazionale.
In Italia ha vinto nel 2009 l’esperienza complessiva dei Parchi di Val di Cornia, con l’esperimento di bilancio sostenibile di un ente di gestione di area protetta, con una forte integrazione tra risorse naturali e di quelle culturali nei programmi di valorizzazione. Nel 2011 ha vinto il Premio l’esperienza di recupero urbanistico e territoriale di Carbonia, denominata Landscape-machine, un programma di riqualificazione territoriale complesso che ha riportato alla luce il disegno urbano di una città di fondazione e l’apparato produttivo minerario che la ha motivata nel periodo fascista. Pochi giorni fa è stata selezionata per la candidatura europea 2013 il lavoro di Libera nel corleonese. E’ un’esperienza pilota, ormai riprodotta in diverse altre situazioni, di qualificazione territoriale, del paesaggio e del modo di fare impresa rurale nel Meridione, a partire da terreni confiscati alle mafie e assegnati a cooperative sociali, organizzate secondo il modello studiato da Ciotti e dal suo gruppo.
In tutti i casi si tratta di programmi di grande respiro che, attraverso la gestione delle risorse paesistiche, hanno modificato complessivamente le prospettive di sviluppo di ambiti territoriali trascurati, delineando una strategia di qualificazione complessiva di lungo periodo, che trasforma strutturalmente il senso del paesaggio nei luoghi su cui agisce.
A livello europeo queste esperienze italiane sono state premiate (con il secondo premio nel 2009 e il primo nel 2011), a testimoniare l’importanza assegnata dal Consiglio d’Europa alla governance di processo, all’integrazione tra aspetti diversi in progetti articolati tra città e campagna, identità e turismo, salvaguardia dei beni e loro valorizzazione nei processi vitali d’uso. Al di là dei progetti vincitori, il primo comune denominatore che emerge dagli interventi selezionati al Premio è la dimensione intermedia degli ambiti coinvolti. Infatti se, come negli appalti, si eccettuano le “ali” (cioè sia l’area vasta di province e regioni che hanno candidato i propri piani, sia la specificità della singola opera pubblica “open air”), si tratta per lo più di piccole aree protette, o di piccoli gruppi di comuni.
Sono soggetti che hanno lavorato sulla gestione di alcune risorse peculiari del luogo, su occasioni fornite dalle strategie pubbliche per infrastrutture o recuperi, su programmi di valorizzazione territoriale di ambiti vallivi o collinari. Si tratta di una dimensione irraggiungibile dalla stalattite dei programmi dei Piani regionali, perché troppo di dettaglio, ma anche distante dalla stalagmite degli interventi isolati nel singolo luogo o delle opere pubbliche sul singolo bene.
Dunque, nei programmi che sono stati riconosciuti d’eccellenza per la qualificazione del paesaggio, le due dimensioni proprie dell’attività istituzionale (il Piano generale e l’intervento con opera pubblica) non sono adatte a gestire gli aspetti essenziali, di reale valore aggiunto. D’altra parte sappiamo tutti che una sola amministrazione locale è in difficoltà ad affrontare un programma complesso, anche se di dimensioni geograficamente ridotte. Infatti i risultati sono ottenibili solo con uno sforzo importante sia per la dimensione degli investimenti necessari sia soprattutto per la ineluttabile necessità di cooperazione strategica tra più soggetti, anche pubblici, responsabili di diversi livelli di scala: oltre ai comuni occorre anche la cooperazione dello stato, delle regioni, ma anche delle province (o altri enti a livello intermedio, di cui si sente fortemente il bisogno, nonostante le affrettate indicazioni della spending review). Insomma mettere il paesaggio al centro dell’attenzione richiede l’identificazione di un livello di scala adeguato, a cui chi opera in Italia non è abituato. Il secondo fattore vincente che emerge dagli interventi selezionati al Premio del paesaggio è l’integrazione pubblico-privata degli attori, che, soprattutto nei concorrenti non italiani, è risultata fondamentale non solo per accreditare politicamente i progetti e i programmi, condividendoli con le comunità locali, ma anche per rendere sostenibile la loro gestione.
Invece di gravare solo sull’investimento pubblico, il programma tipo europeo assegna ad operatori volontari i compiti di presidio e di manutenzione (assegnando un ruolo crescente ai mediatori culturali e agli “accompagnatori” di progetto), integra i redditi di operatori in aree depresse con circuiti turistici attivati proprio a fronte di una qualificazione dell’immagine del territorio, promuove e riunisce sotto un unico coordinamento attività private o di volontariato diverse, che riducono significativamente i costi gestionali.
Alla mano pubblica (o delle grandi fondazioni) residua il compito fondamentale degli investimenti una tantum, dei grandi interventi infrastrutturali o di riqualificazione, dello startup di attività gestionali che, una volta avviate sono però sostenibili con modesti appoggi.
Anche in questo caso in Italia serve studiare le modalità, gli accordi, i ruoli che nelle soluzioni virtuose internazionali si sono provate per il terzo settore, per il monitoraggio delle attività di volontariato, per regolare le responsabilità e i vantaggi di un rapporto pubblico-privato tutto da esplorare e sperimentare a fronte di interessi che ormai devono essere integrati provenendo da storie molto eterogenee (le scuole, le associazioni culturali e per il tempo libero, i gruppi di acquisto solidale, ….).
Un terzo fattore di grande interesse, presente in particolare nei progetti non italiani, è la prevalenza degli aspetti di programma operativo e di fattibilità in tempi e modi preventivati rispetto alla cura del disegno, l’importanza assegnata alle pratiche e agli usi rispetto ai contenitori fisici e alle opere pubbliche. Questo vale sia per gli interventi di recupero che per quelli di infrastruttura, e finisce per assegnare un ruolo rilevante alle convenzioni con gli agricoltori e gli addetti alla ricettività, alle organizzazioni dei circuiti turistici, alle competenze di accompagnamento piuttosto che agli appalti e ai concorsi di progettazione. In quei programmi l’intervento sugli immobili è strumentale all’intervento organizzativo e sugli aspetti immateriali; il rispetto dei tempi, dei budget e degli standard di fattibilità prevale sulla ricerca della qualità “a prescindere”. Questo modello di riferimento non deve significare l’abbandono di ogni interesse per gli aspetti fisici e formali del paesaggio, ma piuttosto la necessità di un accompagnamento di quelle capacità operative, che in Italia non mancano, con quelle gestionali e organizzative, di cui siamo strutturalmente e storicamente molto carenti.
Il quarto fattore di cui tener conto è la necessità di costruire reti di confronto, di discussione, di circolazione delle buone pratiche. Si tratta di un’urgenza che sta emergendo man mano che si possono monitorare le esperienze virtuose di gestione del paesaggio: gli operatori più virtuosi, impegnati in vicende complicate e di lungo periodo dei loro programmi gestionali, con un’attenzione imprenditoriale al proprio territorio, tendono ad isolarsi, a far prevalere le questioni locali, anche minute, rispetto alle dinamiche più complessive a cui partecipano ma in modo solo indiretto.
E poi va detto: la gestione sostenibile sinora non ha pagato in termini di notorietà, di soddisfazione del narcisismo, di ribalta dei media. In tempi di palchi occupati da cialtroni occorre costruire agorà, sedi di confronto tra pari, che si stimano: luoghi in cui si abbia motivo, non legato alla vanità personale, di conoscere le esperienze altrui e confrontare le proprie attività, ciascuno uscendo dal proprio recinto, per misurarsi con gli altri e arricchire il panorama di esperienze reali.
3. Il paesaggio strategico per i beni culturali
La linee strategiche sopra tratteggiate non sono confinate in una logica di settore, in cui relegare il paesaggio, ma valgono per delineare una politica ben più generale sui beni culturali. Infatti, chi si interessa dei beni culturali, anche se non si sta misurando con problemi immediatamente gestionali, è ormai giunto alla conclusione che per ottenere una conservazione diffusa occorre una nuova considerazione sociale del valore del patrimonio. Ma non basta che questo pensiero riduca il dominio dell’ideologia del vincolo: deve verificarsi l’efficacia di un investimento sul senso diffuso di proprietà culturale dei beni culturali, nelle situazioni e nelle condizioni reali in cui ci muoviamo, che vediamo, che costituiscono il nostro quotidiano. Ci pare che la condivisione sociale di una strategia di uso del patrimonio non possa che passare per la sua valorizzazione nel paesaggio. Quindi da una parte dobbiamo lavorare sulle relazioni dei beni con l’intorno insediato e naturale in cui sono contestualizzati. D’altra parte ci attende un investimento culturale complesso, che dia forza e capacità operativa all’immaginario collettivo, in cui si inserisce ruolo della percezione e della memoria dei beni. Ci pare insomma che il paesaggio, sintesi inestricabile dell’immagine depositata nella memoria collettiva e dei luoghi fisici che la suscitano, sia il contenitore integrale, l’unico entro il quale possiamo condividere politicamente bilanci complessivi sugli effetti dell’utilizzo del patrimonio culturale, in termini di valorizzazione sociale e di sostenibilità economica ed ambientale.
D’altra parte sembra già matura la consapevolezza della relazione strutturale tra natura e cultura, contenuta sin dalla definizione di paesaggio nella CEP, che ormai si è fatta avanti anche nell’operatività dei settori di tutela ambientale. Infatti addirittura l’IUCN (l’organizzazione che coordina a livello mondiale la protezione della natura) promuove e favorisce da qualche anno i “paesaggi culturali”, come tipo di area protetta necessaria per la conservazione della natura, soprattutto nei paesi in cui agricoltura e natura siano storicamente integrati in ecosistemi stabilizzati.
Con queste premesse prende forma, quasi di necessità, una linea strategica politicamente incisiva che pone il paesaggio al centro di un nuovo sguardo integrato sia per chi opera nei settori dei beni culturali e della gestione del territorio e dell’ambiente, sia per chi cerca modelli produttivi di una qualità della vita, del lavoro e del tempo libero migliori e più sostenibili. Da una parte, per chi opera nei settori dei beni culturali e della gestione del territorio, in un’economia pubblica in fase critica, è ormai chiaro: preoccuparsi solo del restauro o del ripristino di alcuni dei beni comporta una concentrazione dei costi che impedisce di fare fronte al complesso delle necessità di mantenimento e di recupero, e quindi rischia la perdita di ogni positivo effetto di conservazione di insieme.
Le ricadute territoriali complessive degli interventi di recupero devono essere ampliate e rese più percepibili e soprattutto deve diventare obbligatorio, a fronte degli investimenti, un bilancio sociale degli esiti degli interventi. In regime di risorse scarse le scelte di intervento devono riferirsi ad una valutazione degli effetti attesi e deve essere dimostrata un’utilità tangibile degli investimenti per la conservazione.
Se si conduce una sistematica valutazione degli esiti degli interventi sui due aspetti del paesaggio (materiale e immateriale), diventa evidente la “necessità politica” di estendere la manutenzione del territorio, e quindi di occupare maggiori risorse e attenzioni diffuse, ma anche di rendere meno costosi e più praticabili i singoli restauri e le manutenzioni stesse. In ogni caso anche una riduzione dei costi unitari non basterà: occorre uscire da una logica di totale carico pubblico delle attività di manutenzione, e favorire interventi che mobilitino attività e risorse private. Ma soprattutto bisogna progettare utilizzi redditizi ed innovativi del patrimonio nel suo complesso, in cui la manutenzione sia parte del processo stesso delle attività ordinarie e degli utilizzi produttivi, come è sempre stato storicamente.
E’ ormai evidente che non si può sostenere la tesi che l’utilità della conservazione coincida con il mantenimento per i posteri della “testimonianza delle cose”, visto che nel tempo il paesaggio in cui “le cose” sono inserite muta ineluttabilmente il senso e il valore di tale testimonianza. Se si ragiona a partire dal paesaggio decadono i paradigmi assoluti della conservazione dei beni e si adotta una valutazione relativistica degli interventi rispetto ai luoghi e ai tempi. Diventa essenziale, per le strategie di conservazione, leggere e rendere leggibili le relazioni che legano i beni ai luoghi e potenziare quelle che ancora connettono i loro tempi con i nostri tempi.
Insomma la riorganizzazione concettuale portata dall’attenzione dal pensiero sul paesaggio comporta una conversione degli specialisti del restauro, delle gestioni museali e delle aree protette. Gli si richiede di abbandonare la difesa di riserve sempre più limitate, che vorrebbero mantenere come luogo delle ortodossie della tutela, e viceversa di mettere in gioco la propria preziosa competenza per attività di gestione del patrimonio e del territorio per le quali sia verificata, passo per passo, l’efficacia per la qualità della vita culturale, del senso di identità delle comunità locali e della consapevolezza della propria storia.
D’altra parte, per chi cerca migliori e più sostenibili modelli produttivi di una qualità della vita, del lavoro e del tempo libero, si profila la sfida dell’impresa territoriale, la partecipazione ad azioni strategiche non tanto fondate sul profitto e sulle rendite (pubbliche e private) quanto su:
• il riconoscimento, la messa a sistema e la promozione di immagine delle risorse fisiche e culturali presenti, almeno in traccia, sul territorio. Per questo occorre avviare processi di ristrutturazione del sapere territoriale, sinora trascurato a fronte dei saperi specialistici e di settore. Per comprendere i valori attribuiti agli aspetti del paesaggio e del patrimonio, di ogni territorio vanno esplorate le integrazioni tra i saperi e le risorse a rischio di obsolescenza, che costituiscono l’ossatura dei modi tradizionali di abitare, produrre e godere. Alla lettura strutturale dei modi d’uso tradizionali del territorio vanno collegati i know-how innovativi, riferiti alle nuove capacità d’iniziativa, promuovendo quelli che riescono a sintetizzare le radici locali con le reti globali e a dare spazio a soluzioni congruenti di problemi che oggi provocano scontri manichei, tra i fautori di interventi “indiscutibili” e i cartelli del “no”;
• la promozione di uno “stile pubblico” del progetto e degli usi, caratterizzato da una sobrietà operativa, tecnica, dei comportamenti e dei bilanci economici delle attività, attenta all’impronta sulle componenti irriproducibili, come il suolo fertile, l’acqua o i segni della storia, ma anche alle modalità di fruizione culturale che consentano il godimento diffuso dei beni a basso impatto e bassi costi gestionali, la riduzione delle concentrazioni spaziali e temporali, riducendo gli eventi e favorendo le modalità organizzative locali, accettando una minore professionalità ma promuovendo un più ampio arco stagionale e un maggiore orizzonte temporale;
• un’innovativa capacità di messa in rete dei beni culturali e dei servizi e di coordinamento della loro gestione, che deve non solo informare, ma consentire valutazioni, aiutare nei progetti e nelle scelte strategiche, favorendo il confronto tra gli sguardi di soggetti operativi tradizionalmente distanti e poco integrati e un asset di fruitori spesso male informati e poco preparati ad essere coinvolti in processi partecipativi;
• la capacità di stabilire accordi pubblico-privati su programmi strategici ed impegnativi, in cui la mano pubblica mette a disposizione (non vende!) le proprie risorse a fronte di impegni gestionali privati di medio-lungo periodo. Il modello d’impresa che tali accordi favoriscono è legato alla prestazione di servizi ad hoc e alla gestione delle risorse culturali e ambientali locali, perseguendo, con declinazioni diverse caso per caso, obiettivi di interesse generale dello stesso ordine di quelli che hanno portato alla rivoluzione nelle conduzioni agrarie o nella dotazione di servizi della città di un secolo fa. Si tratta di modelli storici di cooperazione pubblico-privato che hanno mostrato ricadute diffuse, con una solidità e un incremento di valore secolare, sfidando guerre e crisi economiche e contribuendo a mantenere coeso l’immaginario collettivo con la costruzione del paesaggio urbano, a cui tutti gli italiani sentono di aver partecipato nei 150 anni di storia patria.
Con questi requisiti si stanno facendo prove non solo per una nuova progettualità di intervento e di gestione per i beni e per il paesaggio, ma per mettere a punto criteri per un’altra economia, un’altra potenzialità di sviluppo della qualità della vita in contesti locali.
Sperimentando processi gestionali con questi criteri riusciamo ad intravedere vie di uscita al processo catartico a cui ci conduce la crisi istituzionale ed economica, che porta gli enti a disinvestire nel settore culturale o addirittura a liquidare il patrimonio, iscritto a bilancio come centro di costo e privo di progettualità positive.
Insomma, di fronte agli ultimi fuochi di una generazione che ha progettato solo le cose e non gli usi e i loro impatti, e non ha misurato l’efficacia strategica dei propri investimenti, né in senso culturale né in senso economico o sociale, il nuovo progetto culturale e ambientale usa il paesaggio come fattore aggregante e di valorizzazione e fonda la sua novità:
• sulla consapevolezza di una responsabilità territoriale ed economica di ogni azione di qualificazione del patrimonio,
• sull’estensione dell’innovazione e della proposta non solo alle cose ma anche ai comportamenti dei fruitori e degli operatori,
• sul coinvolgimento dei capitali tradizionalmente impegnati “contro” la qualità del territorio e il patrimonio, le cui “vie brevi” alle rendite si stanno finalmente inaridendo.
4. I nuovi soggetti del paesaggio utile
Lo sforzo maggiore che ci aspetta è proprio mettere a sistema competenze e responsabilità (che quasi sempre già esistono e devono solo essere reinquadrate) in progetti integrati che comportano in ogni caso una cooperazione tra diversi operatori (pubblici e privati, di diversi settori, di integrazione di filiera etc.). L’integrazione tra i soggetti diversi è tanto più proficua quanto più sono eterogenei e complementari i rispettivi settori di provenienza, ma perché questo avvenga i soggetti devono già essere conquistati all’idea del paesaggio utile alle funzionalità del territorio e alla qualità della vita, alla necessità di competenze e di strategie per sperimentarne gli effetti nella gestione dei beni comuni.
Ciascuno per proprio conto deve essere motivato. Quindi, quando pensiamo a chi è interessato a promuovere competenze per il paesaggio utile non individuiamo categorie funzionali ma tipologie di atteggiamenti strategici e di interessi realmente “politici”. Ad esempio:
L’amministratore locale che considera strategico per il proprio comune affrontare temi di gestione del territorio a scala sovralocale e intersettoriale, cercando soluzioni in cui il contenimento dei costi gestionali si unisca alla fornitura di nuove prestazioni di qualità, come:
– la riorganizzazione dei servizi e dello spazio pubblico, basata sia su requisiti di razionalizzazione sia su una condivisione con la popolazione dei valori identitari e funzionali effettivamente richiesti,
– il coinvolgimento di operatori pubblico-privati per elaborare un disegno identitario e un modello fruitivo di qualità dei bordi costruiti, delle aree di margine e dei vuoti urbani, a basso consumo di suolo fertile e con buona riqualificazione degli spazi pubblici periferici,
– il coinvolgimento degli operatori della scuola, di associazioni no-profit o di operatori convenzionati per la manutenzione e la valorizzazione del patrimonio culturale per utilizzi e attività di interesse generale. Esempi storici: il modello gestionale delle città emiliane dal 1950 al 2000; oggi: sperimentazioni episodiche (Cascina Cuccagna a Milano, comuni della val d’Adige in Trentino o quartieri della cintura torinese). In tempi di crisi: l’amministratore locale che pone, ai progetti sul proprio territorio, requisiti qualitativi come la sostenibilità dei costi manutentivi nella gestione dello spazio pubblico, compreso il verde anche territoriale, oppure che cerca di mettere a punto programmi di valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico sostenibili economicamente senza la sua svendita. Il gestore di area protetta (parchi, beni Unesco etc.) che, proprio per centrare gli obiettivi di conservazione e valorizzazione ambientale, considera strategico affrontare i temi dei paesaggi culturali e dell’integrazione paesistica e fruitiva tra natura e cultura, cercando soluzioni economicamente sostenibili, in cui il contenimento dei costi gestionali si unisca alla fornitura di nuove prestazioni, come:
– l’organizzazione di un’offerta per il turismo e il tempo libero che presenti in modo integrato e con un “marchio” unitario aspetti di visita didattica, opportunità per sport a bassa intensità di attrezzature, proposte di gioco e di avventura per ragazzi e di fruizione di beni culturali e di paesaggio anche con un cartellone di eventi e di esperienze di performing arts,
– la formazione di un’offerta di ricettività alternativa a quella tradizionale, con riuso di strutture sottoutilizzate, impianto di strutture temporanee per permanenze assistite in luoghi seminaturali, formazione di reti di agriturismo “basic” e di sperimentazione nelle produzioni agricole. Esempi storici: alcuni parchi francesi, di rinomanza internazionale per sport e attività; oggi, in Italia: parchi come quello del Po e la Collina torinese, quelli della Val di Cornia o del Salento. In tempi di crisi: il gestore che, a fronte della riduzione drastica dei trasferimenti di bilancio, lavora per rendere sostenibili economicamente le attività dell’ente, ricorrendo ad alleanze con soggetti onlus o ad iniziative sponsorizzate, ma anche ad attività economiche, controllandone le ricadute.
L’operatore in reti e management culturale che considera strategico generare un “effetto sistema” della cultura sul territorio, con target un turismo itinerante o comunque un pubblico mobile, cercando soluzioni in cui il contenimento dei costi si unisca alla fornitura di nuove prestazioni, come:
– l’integrazione intersettoriale dell’offerta dei sistemi di beni, rinforzando l’appeal dei circuiti monosettoriali (il Romanico, le Tombe etrusche..) in contesti di qualità paesistica ricchi di luoghi, panorami, attrezzature,
– l’integrazione dell’offerta di eventi con quella dei beni, con la capacità di radicare iniziative di performing arts, mostre o eventi multimediali a luoghi identitari, rendendole appuntamenti sistematici. Esempi storici: il festival di Spoleto; oggi: la Taranta in Salento.
In tempi di crisi: l’operatore che in condizioni di risorse scarse ricerca un’efficacia territoriale e di sistema “spalmando” iniziative ripetibili in diversi luoghi, mettendo in rete iniziative locali già esistenti, costituendo un’offerta integrata ed unitaria capace di riferirsi ad un target non solo locale. L’imprenditore industriale, da solo o meglio associato, che considera strategica, per la propria efficienza produttiva e commerciale, l’organizzazione e la qualità del territorio del proprio distretto, ricercando, insieme agli enti locali, il valore aggiunto di prestazioni come:
– la leggibilità dell’immagine anche fisica di un positivo inserimento paesistico delle proprie attività,
– la qualificazione dei rapporti di produzione derivante dall’abitare in luoghi ricchi di identità e di offerte gratificanti, che attirano le intelligenze e mantengono sul territorio le energie creative. Esempi storici, l’Ivrea di Olivetti; oggi: le imprese che promuovono le Ville Metropole francesi, come Montpellier o Lille. In tempi di crisi: l’imprenditore che, d’accordo con l’ente locale, individua i beni pubblici a cui tengono i propri collaboratori e preferisce, a pari costo, investire su di essi, invece di distribuire benefits individuali.
L’imprenditore rurale, da solo o associato, che considera strategica una connessione stretta tra produzione e paesaggio, cercando soluzioni in cui il contenimento dei costi si unisca alla fornitura di nuove prestazioni di qualità e ad una capacità di comunicazione indirizzate a:
– stabilire contatti diretti e sistematici con i consumatori (anch’essi individuali o meglio associati) per far apprezzare la qualità dei propri prodotti (vendita diretta, km zero, agriturismo, mercati del biologico)
– promuovere occasioni per i “cittadini” di godimento del paesaggio rurale, come stimolo per l’accorciamento drastico della filiera e la commercializzazione di valori “culturali” legati alle produzioni vegetali (alimentazione ma anche costruzioni, energia, tempo libero, salute). Esempi storici: Garden City come pensata oltre un secolo fa in Inghilterra; oggi: le iniziative di produzioni periurbane, gli orti organizzati, il sistema dei pacchi-famiglia diffusi intorno alle maggiori città francesi. In tempi di crisi: l’agricoltore periurbano che sa comunicare un’offerta di risparmio e qualità non solo di prodotti ma di luoghi per il tempo libero, in particolare per i ragazzi e gli anziani.
L’operatore nei processi di riqualificazione urbana, in genere coinvolto in un contesto decisionale pubblico-privato, che considera strategica l’opzione di costruire solo per ottenere effetti di qualità abitativa e dello spazio pubblico, cercando soluzioni in cui il contenimento dei costi si unisca alla fornitura di nuove prestazioni del paesaggio urbano, come i temi:
– dei bordi, dei green front (river, mountain), delle porte urbane, che da luoghi marginali possono diventare sede di centralità se si valorizzano le specificità dei siti, i segni riconosciuti e il ruolo dei luoghi nell’immaginario collettivo consolidato.
– del paesaggio identitario interno alla città, costituito dal sistema dei luoghi pubblici, che da esito secondario e complementare ai progetti edificatori ne diventino il motore qualitativo, che genera valore aggiunto rispetto ad una domanda non solo residenziale ma anche terziaria e di attività produttive. Esempi storici: i quartieri sperimentali in Europa a partire dal 1930; oggi: la Llei de Barris catalana, che ha promosso oltre 100 interventi di qualificazione dello spazio pubblico di interi quartieri, con risultati diffusi di crescita dei valori immobiliari e della domanda, di molte volte superiori all’investimento iniziale. In tempi di crisi, con mercati immobiliari bloccati e domanda di localizzazione industriale inesistente, l’operatore pubblico-privato che lavora per la qualificazione degli spazi pubblici (in particolare verde e piazze già esistenti), per migliorare l’offerta di qualità urbana dei nuovi insediamenti di periferia e rendere possibile l’accesso a nuovi segmenti di domanda (sia residenziale che terziario-produttiva).
La fondazione bancaria, in particolare con circuiti locali (banche popolari, casse di risparmio, di credito cooperativo e rurali), che considera strategici per la sua missione gli interventi sul patrimonio culturale ma che ne vuole verificarne gli esiti sulla qualità della vita e sulla percezione della popolazione, e applicando criteri di efficienza e di efficacia delle prestazioni si indirizza a promuovere interventi specifici, che diano visibilità per un target allargato ad iniziative di:
– sviluppo locale fondato sull’uso turistico di risorse culturali o ambientali,
– qualificazione della fruizione di siti e beni culturali o ambientali.
In tempi di crisi, la fondazione bancaria che al contenimento degli investimenti accompagna politiche di valorizzazione e fruibilità degli interventi di riabilitazione e restauro già avviati o compiuti, iniziative per la loro percezione da parte del pubblico, o per l’allargamento del pubblico con inserimento degli interventi in circuiti o processi di visibilità diffusi ed estesi.