Non è solo il patrimonio culturale ma anche quello ambientale si conserva meglio se inserito in processi equilibrati di utilizzo da parte di comunità consapevoli. Consapevolezza che si fonda sulla conoscenza e sul senso di identità condivisa del proprio territorio come parte fondamentale del paesaggio e sul coraggio di progettare nuovi utilizzi coerenti con le antiche forme.
Art Lab 2011, Relazione introduttiva Paolo Castelnovi
In Italia i beni culturali e quelli ambientali sono per lo più considerati “patrimonio non disponibile” all’uso, come se i progetti d’uso fossero contrari alla conservazione e portassero il degrado del bene stesso. Da qualche anno, però, i migliori programmi di sviluppo locale si basano proprio sul paesaggio e pongono i beni come risorsa utile per un modello di economia locale sostenibile e innovativo. Inoltre, come riconosciuto dall’IUCN, l’Unione mondiale per la conservazione delle natura, le componenti ambientali più importanti si conservano meglio se inserite in processi equilibrati di utilizzo da parte di comunità consapevoli. Consapevolezza che si fonda sulla conoscenza e sul senso di identità condivisa del proprio territorio come parte fondamentale del paesaggio e sul coraggio di progettare nuovi utilizzi coerenti con le antiche forme.
1. Talenti da svendere (è titolo di libro di una ricercatrice emigrata uscito qualche mese fa): come per i giovani stiamo facendo per il patrimonio culturale, di cui abbiamo uno stock eccezionale e universalmente riconosciuto. Svendiamo i talenti che, nella parabola evangelica, erano posti come pegno del patto tra padrone e servo. Il servitore non deve sprecarli ma non deve neppure solo custodirli: deve metterli a frutto. La parabola dei talenti ci insegna l’etica dell’utilizzo: sociale e sostenibile. Sono aggettivazioni strutturali del concetto stesso del bene comune, quale è per eccellenza il patrimonio culturale. E’ politicamente immorale ogni gestione dei beni che non comporti la loro messa a frutto sociale (in quanto patrimonio culturale, non in quanto valore economico marginale), così come è immorale la gestione del patrimonio pubblico che comporti il suo degrado e non provveda a quanto occorre per la manutenzione del suo ruolo di bene comune.
Sin qui le migliori dichiarazioni di obiettivi, di politiche a cui indirizzare le energie. Ma da tempo siamo impantanati nelle gore della troppo lenta diffusione di queste valutazioni nel sentire comune, e soprattutto nella resilienza dei tecnici, che non cede facilmente da una consolidata opinione autoreferenziale: il bene culturale va conservato e io sono il suo conservatore, il resto è meno importante, e in tempi di crisi è addirittura superfluo. E’ una posizione che si richiude a riccio, isolando il bene e chi lo conserva, perdente in un mondo in cui ormai si constatano i vantaggi delle reti, delle strategie dinamiche, delle politiche di dissipazione di concentrazioni ed impatti. In molti casi ci si trova in una situazione di doppio vincolo: da una parte il timore di perdere fisicamente il bene (culturale o ambientale, non fa differenza) se non si attua una rigida politica conservatrice, con costi ormai insostenibili; dall’altra lo si vede perdere di valore d’uso e sociale, va in oblio lo statuto di bene comune, talvolta anche per i vincoli imposti dalla conservazione. Come Bateson insegna, dai doppi vincoli si esce rovesciando il tavolo, cioè spostando il campo di gioco dove poter giocare con regole diverse. In questo caso pare ormai necessario spostare l’attenzione, il campo di gioco, sulla condivisione sociale dei valori di riferimento, ormai ridotta a fattore accessorio, trascurata nelle strategie degli ultimi decenni. Non possiamo più contare sul clima ideologico che ci ha accompagnato fino alla fine del ‘900, quando la considerazione diffusa di concetti astratti come la “Storia” o la “Natura” ha molto aiutato, tra l’altro, il paradigma della conservazione del patrimonio. I beni patrimoniali nel ‘900 hanno simboleggiato, nella cultura comune, prima la riconquista dei valori storici ed identitari di Patria, nazionale o locale, poi la ricerca di un rapporto non predatorio o conflittuale con l’Ambiente, una riconciliazione con la Terra Madre.
Ma quelle ideologie, che altrove hanno consentito un’efficace protezione sociale e condivisa dei beni, sono state in Italia fin troppo facilmente arginate e indirizzate a difendere un catalogo di bandiera, di luoghi cartolina, di specie-faro, di monumenti patrimonio dell’Umanità.
Ci si stupisce e si fa polemica sulla competenza di un ministro se crolla un muro a Pompei, ma ci siamo abituati a vedere, passando per strada, l’abbandono di chiese romaniche e palazzi seicenteschi, l’infognamento di luoghi naturali residui ai bordi delle città, il degrado di spazi pubblici progettati in origine come luoghi della vita sociale e culturale di interi quartieri. Salutiamo come eroe il sindaco particolarmente capace cheriesce a convogliare investimenti cospicui per rimettere all’onor del mondo tesori unici e sino a 10 anni fa quasi in rovina. Ma ci chiediamo come faranno altri sindaci eroici in altre belle città e campagne a trovare i denari per recuperare e soprattutto per mantenere il recuperato.
Di fronte alla miriade di beni sul nostro territorio non abbiamo costruito una “cultura Cynar”, che riduca il logorio della vita moderna. Fuor di metafora: non sappiamo dove individuare le energie diffuse necessarie per la manutenzione del nostro patrimonio diffuso, neppure per i beni recuperati, soprattutto se sono utilizzati come museo di se stessi. Ecco: l’impresa che ormai si sta profilando non è più tanto il recupero, quanto la manutenzione, soprattutto quella diffusa, estesa al territorio, che costituisce un problema anche per gli interventi recenti, una volta esauriti gli entusiasmi e gli investimenti, che quasi sempre son saltati fuori solo in base alla cultura dell’emergenza e della prima pagina dominante in questi anni, ma poi mancano quando si tratta di far fronte all’erosione e al degrado del giorno per giorno.
2. Dunque pensiamo che per ottenere una conservazione diffusa occorre una nuova considerazione sociale del valore del patrimonio. Ma questa innovazione non si verifica in astratto, ideologicamente: deve avvenire concretamente, nei luoghi e nelle situazioni. Ci pare che la condivisione sociale di una strategia di uso del patrimonio non possa che passare per la sua valorizzazione nel paesaggio. Dobbiamo quindi lavorare sulle relazioni dei beni con l’intorno insediato e naturale, in cui sono contestualizzati. Non solo, ma ci attende un lavoro culturale complesso, che incida nell’immaginario culturale collettivo in cui si inserisce la percezione e la memoria dei beni.
Ci pare insomma che il paesaggio, sintesi inestricabile dell’immagine depositata nella memoria collettiva e dei luoghi fisici che la suscitano, sia il contenitore integrale, l’unico entro il quale possiamo condividere politicamente bilanci complessivi sugli effetti dell’utilizzo dei nostri talenti, di valorizzazione sociale e di sostenibilità economica ed ambientale. Con queste premesse prende forma, quasi di necessità, una linea strategica politicamente incisiva che pone il paesaggio al centro di un nuovo sguardo sia per chi opera nei settori dei beni culturali e della gestione del territorio, sia per chi cerca modelli produttivi di una qualità della vita, del lavoro e del tempo libero migliore e più sostenibile. Da una parte, per chi opera nei settori dei beni culturali e della gestione del territorio, in un’economia pubblica in fase critica, è ormai chiaro: preoccuparsi solo del restauro o del ripristino di alcuni dei beni comporta una concentrazione dei costi che impedisce di fare fronte al complesso delle necessità di mantenimento e di recupero, e quindi rischia la perdita di ogni positivo effetto di conservazione di insieme. Le ricadute territoriali complessive degli interventi di recupero devono essere ampliate e rese più percepibili e soprattutto deve diventare obbligatorio, a fronte degli investimenti, un bilancio sociale degli esiti degli interventi. In regime di risorse scarse le scelte di intervento devono riferirsi ad una valutazione degli effetti attesi e deve essere dimostrata un’utilità tangibile degli investimenti per la conservazione. Se si conduce una sistematica valutazione degli esiti degli interventi sui due aspetti del paesaggio (materiale e immateriale), diventa evidente la “necessità politica” di estendere la manutenzione del territorio, e quindi di rendere meno costosi e più praticabili i singoli restauri e le manutenzioni stesse. In ogni caso anche una riduzione dei costi unitari non basterà: occorre uscire da una logica di totale carico pubblico delle attività di manutenzione, e favorire interventi che mobilitino attività e risorse private. Bisogna progettare utilizzi redditizi ed innovativi del patrimonio nel suo complesso, in cui la manutenzione sia parte del processo stesso delle attività ordinarie e degli utilizzi produttivi, come è sempre stato storicamente. Solo in casi particolari si può asserire che l’utilità della conservazione coincida con il mantenimento per i posteri della “testimonianza delle cose”, visto che nel tempo il paesaggio in cui “le cose” sono inserite muta ineluttabilmente il senso e il valore di tale testimonianza. Se si ragiona a partire dal paesaggio decadono i paradigmi assoluti della conservazione dei beni e si adotta una visione relativistica rispetto ai luoghi e ai tempi. Diventa essenziale, per le strategie di conservazione, leggere e rendere leggibili le relazioni che legano i beni ai luoghi e quelle che ancora connettono i loro tempi con i nostri tempi.
Insomma la riorganizzazione concettuale portata dall’attenzione al paesaggio comporta una conversione degli specialisti del restauro, delle gestioni museali e delle aree protette: devono abbandonare la difesa di riserve sempre più limitate, che vorrebbero mantenere come luogo delle ortodossie della tutela. Ad essi si richiede di mettere in gioco la propria preziosa competenza per attività di gestione del patrimonio e del territorio per le quali sia verificata, passo per passo, l’efficacia per la qualità della vita culturale, del senso di identità delle comunità locali e della consapevolezza della propria storia. D’altra parte, per chi cerca migliori e più sostenibili modelli produttivi di una qualità della vita, del lavoro e del tempo libero, si profila la sfida dell’impresa territoriale, la partecipazione ad azioni strategiche non tanto fondate sul profitto e sulle rendite private quanto su:
a. il riconoscimento, la messa a sistema e la promozione di immagine delle risorse fisiche e culturali presenti, almeno in traccia, sul territorio. Occorre avviare processi di ristrutturazione del sapere territoriale, sinora trascurato a fronte dei saperi specialistici e di settore. Per comprendere i valori attribuiti agli aspetti del paesaggio e del patrimonio, di ogni territorio vanno esplorate le integrazioni tra i saperi e le risorse a rischio di obsolescenza, che costituiscono l’ossatura dei modi tradizionali di abitare, produrre e godere. Alla lettura strutturale dei modi d’uso tradizionali del territorio vanno collegati i know-how innovativi, riferiti alle nuove capacità di iniziativa, anche individuali, che riescono a sintetizzare le radici locali con le reti globali;
b. la promozione di uno “stile pubblico” del progetto e degli usi, caratterizzato da una sobrietà operativa, tecnica, dei comportamenti e dei bilanci economici delle attività, attenta all’impronta sulle componenti irriproducibili, come il suolo o l’acqua o i segni della storia, ma anche alle modalità di fruizione culturale che consentano il godimento diffuso dei beni a costi bassi, la riduzione delle concentrazioni spaziali e temporali e bassi costi gestionali, riducendo gli eventi e favorendo le modalità organizzative locali, anche non professionali ma diluite nell’arco stagionale e durature negli anni;
c. una innovativa capacità di messa in rete dei beni e dei servizi e di coordinamento della gestione dei beni pubblici (il paesaggio e in generale il territorio e il sapere comune), che deve informare, consentire valutazioni e incidere sulle scelte tra soggetti tradizionalmente distanti o poco integrati e nei confronti di target di fruitori spesso poco e male informati e selezionati;
d. la capacità di stabilire accordi pubblico-privati su programmi strategici ed impegnativi, in cui la mano pubblica mette a disposizione (non vende!) le proprie risorse a fronte di impegni gestionali privati di medio-lungo periodo. Il modello d’impresa che tali accordi favoriscono è legato alla prestazione di servizi e alla gestione delle risorse culturali e ambientali, perseguendo obiettivi di interesse generale (ma anche individuale) dello stesso ordine di quelli che hanno portato alla rivoluzione nelle conduzioni agrarie o nella dotazione di servizi della città di un secolo fa. Si tratta di modelli storici di cooperazione pubblico-privato che hanno mostrato ricadute diffuse, con una solidità ed un incremento di valore secolare, che ha sfidato guerre e crisi economiche e che hanno contribuito a mantenere coeso l’immaginario con la costruzione del paesaggio democratico in un processo di condivisione che ha contribuito a formare le prime generazioni di italiani.
3. Con questi requisiti si stanno facendo prove non solo per una nuova progettualità di intervento e di gestione per i beni e per il paesaggio, ma per mettere a punto criteri per un’altra economia, un’altra potenzialità di sviluppo della qualità della vita in contesti locali. Sperimentando processi gestionali con questi criteri riusciamo ad intravedere vie di uscita al processo catartico a cui ci conduce la crisi istituzionale ed economica, che porta gli enti a disinvestire nel settore culturale o addirittura a liquidare il patrimonio, iscritto a bilancio come centro di costo e privo di progettualità positive.
Di fronte agli ultimi fuochi di una generazione che ha progettato solo le cose e non gli usi e i loro impatti, e non ha misurato l’efficacia strategica dei propri investimenti, né in senso culturale né in senso economico o sociale, il nuovo progetto culturale e ambientale, che usa il paesaggio come fattore aggregante e di valorizzazione, fonda la sua novità:
– sulla consapevolezza di una responsabilità territoriale ed economica di ogni azione di qualificazione del patrimonio,
– sull’estensione dell’innovazione e della proposta non solo alle cose ma anche ai comportamenti dei fruitori e degli operatori,
– sul coinvolgimento dei capitali tradizionalmente impegnati “contro” la qualità del territorio e il patrimonio, le cui “vie brevi” alle rendite si stanno finalmente inaridendo.
Lo sforzo maggiore che ci aspetta è proprio mettere a sistema competenze e responsabilità in progetti integrati che comportano in ogni caso una cooperazione tra diversi operatori (pubblici e privati, di diversi settori, di integrazione di filera etc.). L’integrazione tra i soggetti diversi è tanto più proficua quanto più sono eterogenei e complementari i rispettivi settori di provenienza, ma perchè questo avvenga i soggetti devono già essere conquistati all’idea del paesaggio utile, alla necessità di competenze e di strategie per sperimentarne gli effetti nella gestione del territorio. Ciascuno per proprio conto deve essere motivato. Ma chi è interessato a promuovere competenze per il paesaggio utile?
L’amministratore locale che considera strategico per il proprio comune affrontare temi di gestione del territorio a scala intercomunale e intersettoriale, cercando soluzioni in cui il contenimento dei costi gestionali si unisca alla fornitura di nuove prestazioni di qualità, come:
– la riorganizzazione dei servizi e dello spazio pubblico, basata sia su requisiti di razionalizzazione sia su una condivisione con la popolazione dei valori identitari e funzionali effettivamente richiesti,
– il coinvolgimento di operatori pubblico-privati per elaborare un disegno identitario e un modello fruitivo di qualità dei bordi costruiti, delle aree di margine e dei vuoti urbani,
– il coinvolgimento di associazioni no-profit o di operatori convenzionati per la manutenzione e la valorizzazione del patrimonio culturale per utilizzi e attività di interesse generale.
Esempi storici: il modello gestionale delle città emiliane dal 1950 al 2000; oggi: sperimentazioni episodiche (Cascina Cuccagna a Milano, comuni della val d’Adige in Trentino o quartieri della cintura torinese).
In tempi di crisi: l’amministratore locale che pone, ai progetti sul proprio territorio, requisiti qualitativi come la sostenibilità dei costi manutentivi nella gestione dello spazio pubblico, compreso il verde anche territoriale, oppure che cerca di mettere a punto programmi di valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico sostenibili economicamente senza la sua svendita.
Il gestore di area protetta che, proprio per centrare gli obiettivi di conservazione e valorizzazione ambientale, considera strategico affrontare i temi dei paesaggi culturali e dell’integrazione paesistica e fruitiva tra natura e cultura, cercando soluzioni economicamente sostenibili, in cui il contenimento dei costi gestionali si unisca alla fornitura di nuove prestazioni, come:
– l’organizzazione di un’offerta per il turismo e il tempo libero che presenti in modo integrato e con un “marchio” unitario aspetti di visita didattica, opportunità per sport a bassa intensità di attrezzature, proposte di gioco e di avventura per ragazzi e di fruizione di beni culturali e di paesaggio anche con un cartellone di eventi e di esperienze di performing arts,
– la formazione di un’offerta di ricettività alternativa a quella tradizionale, con riuso di strutture sottoutilizzate, impianto di strutture temporanee per permanenze assistite in luoghi seminaturali, formazione di reti di agriturismo “basic” e di sperimentazione nelle produzioni agricole.
Esempi storici: alcuni parchi francesi, di rinomanza internazionale per sport e attività; oggi, in Italia: l’Ente Parchi della Val di Cornia, (Premio italiano per il paesaggio proprio per la sua gestione virtuosa).
In tempi di crisi: il gestore che, a fronte della riduzione drastica dei trasferimenti di bilancio, lavora per rendere sostenibili economicamente le attività dell’ente, ricorrendo ad alleanze con soggetti onlus o ad iniziative sponsorizzate, ma anche ad attività economiche, controllandone le ricadute. L’operatore in reti e management culturale che considera strategico generare un “effetto sistema” della cultura sul territorio, con target un turismo itinerante o comunque un pubblico mobile, cercando soluzioni in cui il contenimento dei costi si unisca alla fornitura di nuove prestazioni, come:
– l’integrazione intersettoriale dell’offerta dei sistemi di beni, rinforzando l’appeal dei circuiti monosettoriali (il Romanico, le Tombe etrusche..) in contesti di qualità paesistica ricchi di luoghi, panorami, attrezzature,
– l’integrazione dell’offerta di eventi con quella dei beni, con la capacità di radicare iniziative di performing arts, mostre o eventi multimediali a luoghi identitari, rendendole appuntamenti sistematici.
Esempi storici: il festival di Spoleto; oggi: la Taranta in Salento.
In tempi di crisi: l’operatore che in condizioni di risorse scarse ricerca un’efficacia territoriale e di sistema “spalmando” iniziative ripetibili in diversi luoghi, mettendo in rete iniziative locali già esistenti, costituendo un’offerta integrata ed unitaria capace di riferirsi ad un target non solo locale.
L’imprenditore industriale, da solo o associato, che considera strategica, per la propria efficienza produttiva e commerciale, l’organizzazione e la qualità del territorio del proprio distretto, ricercando, insieme agli enti locali, il valore aggiunto di prestazioni come:
– la leggibilità dell’immagine anche fisica di un positivo inserimento paesistico delle proprie attività,
– la qualificazione dei rapporti di produzione derivante dall’abitare in luoghi ricchi di identità e di offerte gratificanti, che attirano le intelligenze e mantengono sul territorio le energie creative.
Esempi storici, l’Ivrea di Olivetti; oggi: le Ville Metropole francesi, come Montpellier o Lille.
In tempi di crisi: l’imprenditore che, d’accordo con l’ente locale, individua i beni pubblici a cui tengono i propri collaboratori e preferisce, a pari costo, investire su di essi, invece di distribuire benefits individuali.
L’imprenditore rurale, da solo o associato, che considera strategica una connessione stretta tra produzione e paesaggio, cercando soluzioni in cui il contenimento dei costi si unisca alla fornitura di nuove prestazioni di qualità e ad una capacità di comunicazione indirizzate a:
– stabilire contatti diretti e sistematici con i consumatori (anch’essi individuali o meglio associati) per far apprezzare la qualità dei propri prodotti (vendita diretta, km zero, agriturismo, mercati del biologico)
– promuovere occasioni per i “cittadini” di godimento del paesaggio rurale, come stimolo per l’accorciamento drastico della filiera e la commercializzazione di valori “culturali” legati alle produzioni vegetali (alimentazione ma anche costruzioni, energia, tempo libero, salute).
Esempi storici: Garden City come pensata un secolo fa in Inghilterra; oggi: le iniziative di produzioni periurbane, gli orti organizzati, il sistema dei pacchi-famiglia diffusi intorno alle maggiori città francesi.
In tempi di crisi: l’agricoltore periurbano che sa comunicare un’offerta di risparmio e qualità non solo di prodotti ma di luoghi per il tempo libero, in particolare per i ragazzi e gli anziani.
L’operatore nei processi di riqualificazione urbana, in genere coinvolto in un contesto decisionale pubblico-privato, che considera strategica l’opzione di costruire solo per ottenere effetti di qualità abitativa e dello spazio pubblico, cercando soluzioni in cui il contenimento dei costi si unisca alla fornitura di nuove prestazioni del paesaggio urbano, come:
– il tema dei bordi, dei green (river, mountain) front, delle porte urbane, che da luoghi marginali possono diventare sede di centralità se si valorizzano le specificità dei siti, i segni riconosciuti e il ruolo dei luoghi nell’immaginario collettivo consolidato.
– il tema del paesaggio identitario interno alla città, costituito dal sistema dei luoghi pubblici, che da esito secondario e complementare ai progetti edificatori ne diventa il motore qualitativo, che genera valore aggiunto rispetto ad una domanda non solo residenziale ma anche terziaria e di attività produttive.
Esempi storici: i quartieri residenziali modello nelle maggiori città europee tra il 1930 e il 1960; oggi: il Progetto Quartieri (Llei de Barris) catalano, che in un decennio ha promosso oltre 100 interventi di qualificazione dello spazio pubblico di interi quartieri, con risultati diffusi di crescita dei valori immobiliari e della domanda, di molte volte superiori all’investimento iniziale.
In tempi di crisi, con mercati immobiliari bloccati e domanda di localizzazione industriale inesistente, l’operatore pubblico-privato che lavora per la qualificazione degli spazi pubblici (in particolare verde e piazze già esistenti), per migliorare l’offerta di qualità urbana dei nuovi insediamenti di periferia e rendere possibile l’accesso a nuovi segmenti di domanda (sia residenziale che terziario-produttiva).
La fondazione bancaria, in particolare con circuiti locali (casse di risparmio, banche popolari, casse di credito cooperativo e rurali), che considera strategici per la sua missione gli interventi sul patrimonio culturale ma che ne vuole verificarne gli esiti sulla qualità della vita e sulla percezione della popolazione, e applicando criteri di efficienza e di efficacia delle prestazioni si indirizza a promuovere interventi specifici, che diano visibilità per un target allargato ad iniziative di
– sviluppo locale fondato sull’uso turistico di risorse culturali o ambientali,
– qualificazione della fruizione di siti e beni culturali o ambientali
In tempi di crisi, la fondazione bancaria che al contenimento degli investimenti accompagna politiche di valorizzazione e fruibilità degli interventi di riabilitazione e restauro già avviati o compiuti, iniziative per la loro percezione da parte del pubblico, o per l’allargamento del pubblico con inserimento degli interventi in circuiti o processi di visibilità diffusi ed estesi